Non è per caso, e non è solo per ragioni di cronologia storica che l’itinerario delle visite ai «Luoghi della memoria» per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia parte dalla spiaggia e dallo scoglio di Quarto a Genova. In effetti, fu qui che il 5 maggio del 1860 prese avvio, con la spedizione dei Mille, la fase conclusiva del lungo percorso del movimento per l’Unità, che sarebbe culminata nella proclamazione, il 17 marzo 1861, di Vittorio Emanuele II Re d’Italia, nella nascita cioè dello Stato unitario.
Si aggiunga che se si ripercorrono gli eventi sfociati nella decisiva scelta dell’impresa garibaldina per la liberazione della Sicilia e del Mezzogiorno, è possibile cogliere le componenti e gli intrecci essenziali del moto unitario, i suoi tratti originali e i motivi del suo successo. L’Unità d’Italia fu perseguita e conseguita attraverso la confluenza di diverse visioni, strategie e tattiche, la combinazione di trame diplomatiche, iniziative politiche e azioni militari, l’intreccio di componenti moderate e componenti democratico-rivoluzionarie. Fu davvero una combinazione prodigiosa, che risultò vincente perché più forte delle tensioni anche aspre che l’attraversarono.
Le tensioni non mancarono anche alla vigilia della decisione di salpare da Quarto per la Sicilia : non mancarono in Garibaldi i dubbi sulle possibilità di riuscita dell’impresa ; non mancarono le preoccupazioni e le riserve di Cavour per una spedizione guidata da Garibaldi, i cui svolgimenti e le cui ricadute potessero sfuggire al controllo politico e diplomatico del massimo stratega del processo unitario. Pesarono, e non poco, diffidenze e rivalità personali nel cui giuoco era ben presente anche Vittorio Emanuele. Al fondo, era in questione, o così sembrava, l’egemonia, l’impronta – moderata o democratica – del movimento per l’Unità e della costruzione del nuovo Stato che ne sarebbe scaturito. Ma su tutto prevalsero le ragioni dettate dallo sviluppo degli avvenimenti, gli imperativi del processo storico, con cui tutti i protagonisti della causa italiana dovettero fare i conti.
La Seconda Guerra d’Indipendenza si era conclusa con una vittoria, costata un pesante tributo di sangue anche alle forze del Regno sardo ; la scelta dell’alleanza con Napoleone III si era rivelata obbligata e feconda, anche se comportò il duro sacrificio della cessione alla Francia di Nizza e della Savoia ; attaccato per questo sacrificio, Cavour poté comprensibilmente vantare per la sua politica «l’averci condotto» – disse – «in così breve tempo a Milano, a Firenze e a Bologna».
In effetti, con l’annessione della Lombardia, dell’Emilia e della Toscana, il regno sabaudo superò gli 11 milioni di abitanti, divenendo un non più trascurabile Regno centro-settentrionale. Ma questo, come ha scritto un grande storico, Rosario Romeo, restava «troppo lontano dall’ideale, non solo mazziniano, di un’Italia unita, che fosse opera soprattutto degli italiani stessi». Si erano peraltro esauriti, con i risultati ottenuti, i margini dell’iniziativa politica e diplomatica e delle alleanze di guerra fino allora sperimentate. Lo disse chiaramente nel luglio 1859 l’accordo di Villafranca tra Napoleone III e l’Imperatore Francesco Giuseppe, che prospettava per l’Italia la soluzione mortificante di una Confederazione di tutti gli Stati esistenti sotto la presidenza onoraria del Pontefice. A Cavour non restò che rassegnare le dimissioni. Spettava ormai «alle forze democratiche e rivoluzionarie» – è sempre il giudizio del nostro maggiore storico di quegli eventi – «imprimere una nuova spinta in avanti al processo unitario». Era venuto il momento di Garibaldi.
D’altronde, già in vista della II Guerra d’Indipendenza, Garibaldi era stato richiesto da Cavour di reclutare volontari che sarebbero stati chiamati a far parte del corpo dei «Cacciatori delle Alpi» e avrebbero dato un contributo decisivo alla vittoria contro gli austriaci in Lombardia. Al di là di ogni sospetto e circospezione nei confronti di Garibaldi, Cavour non dubitava – così si espresse – che egli fosse una «delle maggiori forze di cui l’Italia potesse valersi». Se non si voleva rinunciare al compimento, in Sicilia e nel Mezzogiorno, dell’unificazione nazionale, e non si voleva dare per chiusa la questione romana – e nessuno dei diversi protagonisti poteva volerlo – anche le incognite di una spedizione in Sicilia guidata da Garibaldi andavano accettate, sia pure con prudenza.
D’altra parte, le aspettative per ulteriori sviluppi del movimento per l’Unità d’Italia erano cresciute e crescevano in tutte le regioni non ancora liberate. E una spinta decisiva venne – mentre a Genova affluivano i volontari – dai moti rivoluzionari scoppiati a Palermo e nel palermitano nell’aprile 1860. Il moto unitario cresceva dal basso, scaturiva dal seno della società civile e non solo dai disegni di ristretti vertici politici. Ne dava la misura il fenomeno del volontariato, stimolato e coordinato dalla Società nazionale creata nel 1857, e incanalato dapprima verso il Piemonte in vista della guerra contro l’Austria.
Senza l’apporto del volontariato non sarebbe stata concepibile la spedizione dei Mille. Esso rifletteva il diffondersi di quel sentimento di italianità che poi affratellò gli imbarcati sulle due navi dirette in Sicilia – Piemonte e Lombardo. Erano in realtà anche più di mille, in grande maggioranza lombardi, veneti, liguri : nelle sue famose e sempre fascinose «Noterelle», Abba dice di udire a bordo «tutti i dialetti dell’Alta Italia», e parla di «Veneti, giovani belli e di maniere signorili», di Genovesi e Lombardi, «gente colta all’aspetto, ai modi e anche ai discorsi». Insomma, italiani che si sentivano italiani e che accorrevano là dove altri italiani andavano sorretti nella lotta per liberarsi e ricongiungersi in un’Italia finalmente unificata.
Si indulge forse alla retorica rievocando questi e altri aspetti e momenti dell’epopea dei Mille, o rendendo omaggio alla capacità di attrazione e di guida, al coraggio e alla perizia di condottiero, insomma alla straordinaria figura di Garibaldi, incomprensibilmente oggetto ancora di grossolane denigrazioni da parte di nuovi detrattori? Bisogna intendersi. Retorica sarebbe una rappresentazione acritica del processo unitario, che ne lasci in ombra contraddizioni e insufficienze per esaltarne solo la dimensione ideale e le prove di sacrificio ed eroismo ; e ancor più lo sarebbe una rappresentazione acritica dei traguardi raggiunti 150 anni fa e da allora ad oggi.
Ma non è questa la strada che stiamo seguendo – il governo, il Parlamento, le istituzioni regionali e locali, il mondo della cultura – per celebrare il centocinquantesimo anniversario della fondazione dello Stato unitario : è giusto ricordare i vizi d’origine e gli alti e bassi di quella costruzione, mettere a fuoco le incompiutezze dell’unificazione italiana e innanzitutto la più grave tra esse che resta quella del mancato superamento del divario tra Nord e Sud ; è giusto quindi anche riportare in luce filoni di pensiero e progetti che restarono sacrificati nella dialettica del processo unitario e nella configurazione del nuovo Stato.
Non è però retorica il reagire a tesi storicamente infondate, come quelle tendenti ad avvalorare ipotesi di unificazione solo parziale dell’Italia, abbandonando il Sud al suo destino, ipotesi che mai furono abbracciate da alcuna delle forze motrici e delle personalità rappresentative del movimento per l’Unità. E tanto meno è retorica il recuperare motivi di fierezza e di orgoglio nazionale : ne abbiamo bisogno, ci è necessaria questa più matura consapevolezza storica comune, anche per affrontare con accresciuta fiducia le sfide che attendono e già mettono alla prova il nostro paese, per tenere con dignità il nostro posto in un mondo che è cambiato e che cambia. Ne hanno bisogno anche i ragazzi delle Forze Armate che portano la nostra bandiera, rischiando la vita, in impervi teatri di crisi.
Perciò tutte le iniziative che il ministro Bondi ha richiamato come sobrio programma per il 150° – iniziative di carattere culturale, di più larga risonanza emotiva e popolare, di particolare valenza educativa e comunicativa – non sono tempo perso e denaro sprecato, ma fanno tutt’uno con l’impegno a lavorare per la soluzione dei problemi oggi aperti dinanzi a noi : perché quest’impegno si nutre di un più forte senso dell’Italia e dell’essere italiani, di un rinnovato senso della missione per il futuro della nazione. Ieri volemmo farla una e indivisibile, come recita la nostra Costituzione, oggi vogliamo far rivivere nella memoria e nella coscienza del paese le ragioni di quell’unità e indivisibilità come fonte di coesione sociale, come base essenziale di ogni avanzamento tanto del Nord quanto del Sud in un sempre più arduo contesto mondiale. Così, anche nel celebrare il 150°, guardiamo avanti, traendo dalle nostre radici fresca linfa per rinnovare tutto quel che c’è da rinnovare nella società e nello Stato.
Ieri e oggi ho reso egualmente omaggio alla Genova di Mazzini e di Garibaldi, e alla Genova dei giorni nostri, esempio di un nuovo risorgimento scientifico e produttivo, di un nuovo slancio creativo e laborioso.
Deve quindi guidarci più che mai anche in queste celebrazioni un forte spirito unitario : esse non possono essere rivolte in polemica con nessuna parte politica né formare oggetto di polemica pregiudiziale da parte di nessuna parte politica. C’è spazio per tutti i punti di vista e per tutti i contributi. Onoriamo così i patrioti, gli eroi e i caduti dei Mille che salparono da Genova in questo giorno 5 di maggio di 150 anni orsono.