MICHELE DI SALVO
Ci sono momenti della storia che appaiono marginali e poco significativi.
Salvo a pochi che mentre li vivono si sperticano di far capire ai propri contemporanei che no, quella non è una vicenda minore della cronaca storica, ma è un momento topico, che ha un significato più ampio e complessivo.
In genere non viene capito e non viene compreso.
E se ci facciamo caso, alla fine, è come se questa non comprensione del fatto e del momento, e delle sue implicazioni, in qualche modo “congelasse” la storia a quel momento.
C’è stato un prima, e ci sarà un dopo.
Ma quel momento non affrontato e non approfondito, e quindi non compreso, resta sospeso.
Questa sospensione non è neutra, né neutrale.
È l’abdicazione dell’autentica funzione dell’intellettuale nella società, ovvero colui che si interroga, analizza, studia e restituisce l’analisi e la sintesi dei fenomeni sociali contribuendo a migliorare la società in cui vive e opera.
Diversamente gli intellettuali diventano (oppure restano a seconda dei punti di vista) i “commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico”.
Non è questo un mio sprezzante commento, ma la definizione di Antonio Gramsci.
Più in generale diventano funzionari del consenso e tecnici al servizio di un’ideologia (o di un cliente privato).
L’occasione di questa più ampia riflessione generale mi è stata suscitata da un fatto di “cronaca minore”.
In questi giorni in Italia è esplosa la polemica per la cerimonia di commemorazione della strage del 7 gennaio 1978 quando 3 giovani militanti del partito di estrema destra (MSI) furono uccisi.
La polemica è tutta politica, nel più ampio contesto e nella contingenza del fatto che per la prima volta in Italia una ampia maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni democratiche ha consentito la nascita di un governo di destra-centro (nel senso di un modello centrodestra orientato più a destra che al centro) guidato dalla prima Premier donna di questo Paese, a sua volta leader del partito Fratelli d’Italia erede storico di quello stesso MSI.
Le opposizioni hanno attaccato la manifestazione per i saluti romani, testimoniati dalle impressionanti immagini di centinaia di braccia tese e grida “Presente!”.
Nell’ambito della coalizione di governo il vicepremier e segretario di Forza Italia (partito di centro) Antonio Tajani si è smarcato affermando che “Noi siamo una forza che certamente non è fascista, siamo antifascisti. Chi ha avuto un comportamento deve essere certamente condannato da parte di tutti. C’è una legge, è previsto che non si possa fare apologia di fascismo nel nostro paese”.
La premier Giorgia Meloni ha scelto di non commentare.
Il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (esponente di primissimo piano del partito della premier) ha dichiarato che “Sono persone di varia provenienza, cani sciolti, organizzazioni extraparlamentari. Non hanno niente a che vedere con FdI”.
Sin qui la cronaca apparentemente “spicciola” di un episodio – che per la verità si ripete ogni anno da 45 anni (anche se in dimensioni minori) – che potrebbe passare anche inosservato,e che tutto sommato tra qualche giorno verrà dimenticato (sino al 7 gennaio prossimo, con la stessa retorica e le stesse dichiarazioni di oggi).
Questo piccolo fatto di cronaca però è l’occasione, per me, di affrontare qualcosa di più ampio e che vuole essere avere un maggiore campo visivo.
Per farlo è necessario partire, appunto, dal fatto storico.
Strage di Acca Larenzia è la denominazione giornalistica del pluriomicidio avvenuto a Roma alle 18:20 del 7 gennaio 1978, in cui furono uccisi tre giovani attivisti del Fronte della Gioventù. Due di loro erano appena usciti dalla sede del Movimento Sociale Italiano di via Acca Larenzia, impegnati a pubblicizzare tramite volantinaggio un concerto del gruppo di musica alternativa di destra Amici del Vento. Il terzo venne ucciso qualche ora dopo, durante gli scontri scoppiati con le forze dell’ordine in seguito ad una spontanea manifestazione di protesta, organizzata davanti alla stessa sede dai militanti missini.
Alcuni mesi dopo l’accaduto, il padre di Ciavatta, uno dei ragazzi uccisi, si suicidò per la disperazione bevendo una bottiglia di acido muriatico.
Per circa 10 anni le indagini non portarono a conclusioni.
Solo nel 1988 si scoprì che la mitraglietta Skorpion usata nell’azione fu la stessa usata in altri tre omicidi firmati dalle Brigate Rosse, ossia quelli dell’economista Ezio Tarantelli (27 marzo 1985), dell’ex sindaco di Firenze Lando Conti (10 febbraio 1986) e del senatore Roberto Ruffilli (16 aprile 1988).
Per Francesca Mambro, come anche per altri militanti neofascisti, le cose cambieranno totalmente dopo il 7 gennaio 1978, fatto che porterà molti giovani attivisti del MSI ad abbracciare la lotta armata.
«Per la prima volta e per tre giorni i fascisti spareranno contro la polizia. E questo segnò un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare il Palazzo, rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere.» (Valerio Fioravanti dalla perizia del prof. F. Introna)
Acca Larenzia fu una strage.
Resa ancora più cupa dal clima di omertà.
Dalla responsabilità di quegli intellettuali “commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico” – come direbbe Gramsci – che sostennero e apparvero legittimare la tesi secondo cui “uccidere un fascista non è reato”.
Quella sera Radio Onda Rossa esultava per la morte dei tre ‘fascisti’, con i consiglieri comunali del PCI a brindare per l’uccisione dei “topi fascisti”.
La vicenda di Acca Larenzia segna un doppio confine nella storia italiana, proprio come la strage dei fratelli Mattei arsi vivi in casa il 16 aprile del 1973 (Virgilio e Stefano Mattei rispettivamente di 22 e 10 anni avevano la sola colpa di essere figli di Mario Mattei, segretario del MSI del quartiere romano di Primavalle).
Da un lato gli intellettuali di parte (che quindi cessano di essere intellettuali veri, e diventano pezzi della legittimazione della parte) pronti a parlare a sinistra di “compagni che sbagliano” (Rossana Rossanda) e “i Nar potrebbero essere una sigla inventata dal regime” (l’allora segretario del Fronte della Gioventù, Gianfranco Fini, nel novembre 1979).
In “questo lato” la condanna della violenza è d’ufficio, generica e quindi in sé vuota.
Si condanna la “violenza in qualsiasi forma”, il che equivale a non condonnarla affatto, perché ne risultano condannate quelle forme legittime, che vanno dalla lotta contro l’oppressione alla legittima difesa. Simmetricamente si condanna prevalentemente la “violenza dell’altro”, come a generare due categorie della violenza, quella dei buoni e quella dei cattivi, ed anche questo significa non condannare affatto la violenza.
Dall’altro lato si sollevano poche e fievoli voci, ma di autocritica ex-post, quando “il momento storico è passato”, e si ripensa a quello che poteva essere e non è stato, a quello che potevamo essere e non siamo stati.
Leonardo Sciascia in uno dei suoi ultimi libri, “A futura memoria” afferma testualmente: “Fra le cose che mi rimprovero come viltà, viltà personale, anche se si tratta di viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver preso le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati ingiustamente. Se fossero stati rampolli della sinistra da un pezzo mi sarei dato da fare per loro, avrei sottoscritto petizioni… ma ahimè, appartengono alla destra, e allora, anche se intuisco che qualcosa non funziona, nei processi a cui sono sottoposti, non mi sento abbastanza sollecitato a indagare più a fondo”.
Vale molto, e al contempo pare valga poco, che il presidente-partigiano Sandro Pertini fece visita in ospedale a Paolo Di Nella (militante diciannovenne del Fronte della Gioventù, morto il 9 febbraio 1983 a Roma dopo sette giorni di coma a causa di un’aggressione a sfondo politico subìta la sera del 2 febbraio precedente).
I giovani del FdG si commossero alla visita del Presidente della Repubblica e gli dissero disarmati “presidente ci ammazzano tutti”.
Giuliano Ferrara il 6 febbraio scrisse su Repubblica: «Abbiamo i titoli per dire che per noi questa non è la morte di un fascista, ma la morte di un uomo. E di più: di dire che se questo scelse di dirsi fascista e concepì per la sua vita futura di vivere da fascista, ebbene, aveva il diritto di scegliere e di vivere così.»
Arrivò anche un telegramma dal segretario del PCI ai familiari: «La morte del vostro giovanissimo Paolo, vittima di un’aggressione disumana, che ha scosso e sdegnato ogni coscienza civile, suscita anche il commosso compianto dei comunisti. Vi preghiamo di accogliere le nostre condoglianze e la nostra solidarietà. Enrico Berlinguer»
L’Italia è un paese che ha la sua “frattura storica” negli anni di piombo.
Ma quella frattura resta appesa, sospesa e congelata perché chi doveva – come ruolo sociale, psicologico e politico – porvi rimedio attraverso l’analisi e la riflessione non lo fece.
Scelse di abdicare al proprio ruolo nella società, quello di intellettuale, come tale indipendente dal potere e dalla partigianeria.
Scelse di essere invece il “tecnico addetto all’oppressione” di Basaglia, piuttosto che il “commesso del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico” di Antonio Gramsci o il funzionario del consenso e tecnico al servizio di un’ideologia.
Peggio, lo furono gli intellettuali di sinistra.
Quelli che avrebbero invece dovuto guidare il popolo verso un avvenire diverso.
Una frattura identica è presente in tutti i paesi europei.
Cambiano le date e gli scenari, e quindi i contesti.
Non cambia la struttura del fatto storico, sospeso.
E questa sospensione non è neutra, né neutrale.
È – ovunque – l’abdicazione dell’autentica funzione dell’intellettuale nella società, ovvero interrogarsi, analizzare e restituire l’analisi e la sintesi dei fenomeni sociali contribuendo a migliorare la società in cui vive e opera.
Peggio ancora quando questa frattura e questo congelamento riguardano fatti storici nazionali capaci per dimensione e portata di essere fatti europei – da qui il congelamento e la frattura della Storia non solo nazionale.
È mancata questa funzione per la guerra civile spagnola, ad esempio.
E che la storia d’Europa sia ferma al 1936 – intendendo quel preciso “fatto” – non è una considerazione mia, ma di George Orwell che scriverà testualmente “Ricordo che un giorno osservai ad Arthur Koestler: «La storia si è fermata nel 1936» e che lui assentì, comprendendo immediatamente ciò che volevo dire. Ambedue pensavamo al totalitarismo in generale, ma in modo speciale alla Guerra civile spagnola.”
C’è un prima del 1936 e un dopo.
Un dopo in Europa che poteva essere e che non è stato.
Un dopo in tutta Europa che è stato figlio di quel che è stato nel 1936 in Spagna.
In “Spilling the Spanish Beans” (pubblicato in due puntate nel 1937 sul “New England Weekly”) Orwell scrive
«La guerra spagnola ha prodotto una messe di menzogne più ricca di quella prodotta da qualsiasi altro evento sin dalla Grande guerra ma, onestamente, dubito che nonostante l’ecatombe di suore violentate e crocifisse davanti agli occhi dei corrispondenti del «Daily Mail», siano stati i giornali filo-fascisti ad aver fatto i danni maggiori. Infatti sono stati i giornali di sinistra, il «New Chronicle» e il «Daily Worker», con i loro metodi di distorsione di gran lunga più sottili, ad aver impedito al pubblico britannico di afferrare la reale natura della lotta in Spagna. Il fatto che questi giornali hanno così accuratamente occultato è che il governo spagnolo (compreso il governo semi-autonomo catalano) ha molta più paura della rivoluzione che dei fascisti. […] Da tempo è in corso un regno del terrore – repressione forzata dei partiti politici, censura soffocante della stampa, spionaggio incessante e incarcerazioni di massa senza processo. Quando ho lasciato Barcellona alla fine di giugno le carceri erano stipate; in effetti, le carceri regolari erano strapiene da tempo e i prigionieri venivano concentrati in negozi vuoti e in qualsiasi altra rimessa temporanea che si riuscisse a trovare. Ma il punto da sottolineare è il seguente: le persone ora in prigione non sono i fascisti, ma i rivoluzionari; e ci sono non perché le loro opinioni siano troppo a destra, ma perché sono troppo a sinistra. E le persone responsabili della loro incarcerazione sono (…) i comunisti. […] Nel frattempo la guerra contro Franco continua ma, a parte i poveri diavoli nelle trincee al fronte, nessuno nel governo spagnolo la considera una vera guerra. La vera lotta è tra rivoluzione e contro-rivoluzione; tra i lavoratori che cercano invano di preservare un po’ di quello che hanno ottenuto nel 1930, e il blocco liberal-comunista che con tanto successo glielo sta portando via. È un peccato che così pochi in Inghilterra abbiano colto il fatto che il comunismo, adesso, è una forza contro-rivoluzionaria; che i comunisti sono ovunque alleati con il riformismo borghese e stanno usando tutto il loro potente apparato per schiacciare, o screditare, qualsiasi partito che mostri segni di tendenze rivoluzionarie. […] Ma per capire come si è creata la situazione attuale è necessario tornare indietro, alle origini della Guerra civile spagnola. Il tentativo di Franco di prendere il potere differiva da quello di Hitler e Mussolini: la sua era un’ insurrezione militare paragonabile all’invasione di una forza straniera, e quindi non godeva del sostegno delle masse, anche se Franco, da allora, ha tentato in ogni modo di acquisirne un po’. […] Da qui, di fronte a un reazionario così sfacciato come Franco, si era determinata una situazione, almeno per un po’, in cui operaio e borghese – in realtà nemici mortali – si trovavano a combattere fianco a fianco contro un nemico comune. Questa complicata alleanza era nota come «Fronte popolare» (o sulla stampa comunista, che gli vorrebbe conferire un falso appello democratico, Fronte del popolo). È una combinazione che ha la stessa vitalità, e più o meno lo stesso diritto di esistere, di un maiale con due teste o qualche altra mostruosità da circo Barnum. In qualsiasi grave emergenza la contraddizione implicita nel Fronte popolare è destinata a farsi sentire. Perché anche quando l’operaio e il borghese combattono entrambi contro il fascismo, in fondo non combattono mai per le stesse cose; il borghese lo fa per la democrazia borghese, ossia per il capitalismo; l’operaio, nella misura in cui possa comprendere la questione, lotta per il socialismo. E nei primi giorni della rivoluzione i lavoratori spagnoli avevano afferrato molto bene la questione. Nelle aree dove il fascismo era stato sconfitto non si accontentarono di cacciare le truppe ribelli dalle città, ma colsero anche l’opportunità di impadronirsi di terre e fabbriche e creare rudimentali forme di governo operaio per mezzo di comitati locali, milizie operaie, forze di polizia e così via. […] Forse non sarebbe andata così se la guerra si fosse svolta senza l’interferenza di Stati stranieri. Ma la debolezza militare del governo ha reso necessario l’intervento di forze straniere. All’arrivo dei primi mercenari francesi, infatti, il governo spagnolo aveva invocato l’aiuto dei russi, e sebbene la quantità di armamenti forniti dai sovietici fosse enormemente esagerata (in Spagna, nei miei primi tre mesi, ho visto una sola arma russa, una mitragliatrice), il solo fatto del loro arrivo ha spinto al potere i comunisti. Per cominciare, gli aeroplani e le armi russe, e le buone capacita militari delle Brigate internazionali (non necessariamente comuniste, ma sotto il controllo dei comunisti), hanno aumentato immensamente il prestigio dei comunisti. Ma, cosa più importante, essendo Russia e Messico gli unici Paesi a fornire apertamente armi, i russi erano nelle condizioni non solo di ottenere denaro in cambio delle armi, ma anche di dettare i termini. Nella loro forma più cruda i termini erano i seguenti: «Schiacciate la rivoluzione o non avrete più armi». La ragione solitamente addotta per l’atteggiamento russo è che se la Russia sembrasse favorire la rivoluzione, allora il patto franco-sovietico (e l’auspicata alleanza con la Gran Bretagna) sarebbe stato in pericolo; può anche darsi che lo spettacolo di una vera rivoluzione in Spagna potesse suscitare echi indesiderati in Russia. I comunisti spagnoli, ovviamente, negano di aver subito pressioni da parte del governo sovietico; ma questo, anche se fosse vero, non sarebbe affatto rilevante, poiché i partiti comunisti di tutti i Paesi possono essere considerati come realizzatori delle politiche russe; ed è certo che il partito comunista spagnolo, più i socialisti di destra che essi controllano, più la stampa comunista di tutto il mondo, hanno usato tutta la loro immensa e sempre crescente influenza per favorire la contro-rivoluzione. […] È sbagliato pensare che tutto ciò non abbia alcuna rilevanza in Inghilterra, dove il partito comunista è piccolo e relativamente debole. La sua reale rilevanza sarà chiara se, e quando, l’Inghilterra stabilirà un’alleanza con l’URSS; o forse anche prima, perché l’influenza del partito comunista è destinata ad aumentare – e sta visibilmente aumentando – man mano che sempre più membri della classe capitalista realizzano che il comunismo degli ultimi tempi sta giocando il loro stesso gioco. […] …che cos’è un trotzkista? Questa terribile parola – in Spagna, in questo momento, potresti essere sbattuto in carcere a tempo indeterminato, senza processo, in base a una semplice voce che ti definisce tale – sta solo iniziando a essere sbandierata avanti e indietro in tutta l’Inghilterra. […] L’accusa è molto sottile, perché in ogni caso, a meno che non si sappia il contrario, potrebbe essere vera: è probabile che una spia fascista si travesta da rivoluzionario. In Spagna, chiunque abbia opinioni a sinistra di quelle del partito comunista, scopre prima o dopo di essere un trotzkista, o almeno un traditore. All’inizio della guerra il P.O.U.M., un partito di opposizione comunista corrispondente all’incirca al’I.L.P. inglese, era un partito accettato e forniva un ministro al governo catalano; in seguito fu espulso dal governo; poi fu denunciato come trotzkista; por è stato soppresso, e ogni suo membro su cui la polizia è riuscita a mettere le mani è stato rinchiuso in prigione. […] Fino a pochi mesi la gli anarco-sindacalisti erano descritti come «leali collaboratori» a fianco dei comunisti. Poi gli anarco-sindacalisti sono stati espulsi dal governo; poi e venuto fuori che forse non erano così leali; adesso sono sul punto di diventare traditori. Dopodiché verrà il turno dei socialisti di sinistra. Caballero, l’ex premier socialista di sinistra, l’idolo della stampa comunista fino al maggio 1937, è già nella più profonda oscurità: è diventato un trotzkista e un «nemico del popolo». E così il gioco va avanti. L’obiettivo logico è un regime in cui ogni partito e giornale di opposizione viene soppresso, e in cui ogni dissenziente di qualunque importanza viene sbattuto in prigione. Ovviamente, un tale regime non sarà altro che fascismo. Non sarà lo stesso regime che imporrebbe Franco, sarà addirittura migliore di quello di Franco nella misura in cui varrà la pena di combatterlo, ma sarà fascismo. Solo che, essendo gestito da comunisti e liberali, gli sarà appiccicata un’etichetta diversa. Nel frattempo, questa guerra può ancora essere vinta? L’influenza comunista ha agito contro il caos rivoluzionario e quindi, a parte l’aiuto russo, ha avuto la tendenza a produrre una maggiore efficienza militare. Se dall’agosto all’ottobre del 1936 gli anarchici hanno salvato il governo, i comunisti lo hanno salvato dall’ottobre in avanti. Ma nell’organizzare una tale difesa sono riusciti nell’impresa di uccidere tutto l’entusiasmo (dentro la Spagna, non fuori). Non solo hanno reso possibile un esercito militarizzato di coscritti, lo hanno reso necessario. E significativo che già nel gennaio di quest’anno il reclutamento volontario sia già praticamente cessato. Un esercito rivoluzionario a volte può vincere grazie all’entusiasmo, ma un esercito di coscritti deve vincere grazie alle armi, ed è improbabile che il governo godrà mai di un chiaro vantaggio su questo piano, a meno che non intervenga la Francia e l’Italia e la Germania decidano di papparsi le colonie spagnole e lasciare Franco in balia degli eventi. Nel complesso, una situazione di stallo sembra la cosa più probabile. E il governo vuole davvero vincere? Non vuole perdere, questo è certo. D’altra parte, una vittoria assoluta, con Franco in fuga e tedeschi e italiani spinti in mare, solleverebbe problemi difficili, alcuni dei quali troppo ovvi per essere menzionati. […] Tutto ciò che ho scritto in questo articolo sembrerebbe del tutto normale in Spagna, o anche in Francia. Eppure, in Inghilterra, nonostante il grande interesse suscitato dalla guerra di Spagna, sono pochissime le persone che hanno sentito parlare della grande lotta che si sta svolgendo dietro le linee del governo. Naturalmente non è un caso. Vi e stata una cospirazione abbastanza deliberata (potrei fornire esempi dettagliati) per impedire che la situazione spagnola venisse adeguatamente compresa. Coloro che avrebbero dovuto – e potuto – chiarire, si sono prestati all’inganno sulla base del fatto che, se si racconta la verità sulla Spagna, questa verrà usata come propaganda fascista. È facile vedere dove porterà tanta codardia. Se il pubblico britannico avesse ricevuto un resoconto veritiero sulla guerra di Spagna, avrebbe avuto l’opportunità di imparare cos’è il fascismo, e come questo può essere combattuto. Così com’è, la versione del fascismo del «New Chronicle» – cioè una sorta di caricaturale mania omicida – è ormai stabilita più fermamente che mai. E così siamo un passo più vicini alla grande «guerra contro il fascismo», che permetterà al fascismo, nella sua varietà britannica, di scivolare intorno ai nostri colli nel giro di una settimana.»
Questa lunga citazione offre un primo spunto di riflessione, che può benissimo essere raffrontato alle vicende di Terra e libertà (Land and Freedom), film del 1995 diretto da Ken Loach in cui in seguito all’improvvisa morte del nonno, un operaio di Liverpool, la nipote scopre la sua militanza in Spagna durante la guerra civile, frugando tra carte, fotografie, articoli di giornale e un panno rosso contenente della terra. Da qui il racconto del nonno da giovane che, nel 1936, decide di arruolarsi nella milizia internazionale del Poum per combattere contro i franchisti (e non è una semplice somiglianza rispetto alla cronaca in prima persona di Orwell, che di certo non era il solo inglese).
In “Looking back on the Spanish War” (scritto nel 1942) Orwell riprende la vicenda spagnola, come aveva fatto anche in “Omaggio alla Catalogna” (1938).
«La lotta per il potere tra i partiti repubblicani spagnoli è una storia infelice, e lontana nel tempo, e non ho la minima intenzione di riandare in questo luogo. Vi accenno semplicemente per dire: non credete in nulla, o quasi in nulla, di ciò che leggete sugli affari interni del governo spagnolo. Quale ne sia la fonte, si tratta di propaganda di partito, cioè di menzogne. La verità su quella guerra è abbastanza semplice. La borghesia spagnola scoprì l’occasione di schiacciare il movimento dei lavoratori e non se la lasciò sfuggire, aiutata dai nazisti e dalle forze reazionarie di tutto il mondo. Dubito che si possa mai appurare molto più di questo. Ricordo che un giorno osservai ad Arthur Koestler: «La storia si è fermata nel 1936» e che lui assentì, comprendendo immediatamente ciò che volevo dire. Ambedue pensavamo al totalitarismo in generale, ma in modo speciale alla Guerra civile spagnola. Sin da giovane mi ero accorto che i giornali non riferiscono nessun avvenimento in modo corretto, ma fu solo in Spagna che, per la prima volta, vidi corrispondenze che non avevano il più lontano rapporto con i fatti, neppure quel rapporto che è implicito in una normale menzogna. Lessi la descrizione di grandi battaglie che non avevano mai avuto luogo; non trovai menzionati da nessuna parte episodi che erano costati centinaia di morti. Truppe che avevano combattuto valorosamente venivano denunziate come traditrici e codarde; altre, che non avevano mai udito un colpo di fucile, erano esaltate come protagoniste di immaginarie vittorie, e lessi giornali di Londra che riferivano queste menzogne; incontrai intellettuali che si commuovevano fino alle lacrime per eventi che non erano mai occorsi. Infatti, mi accorsi che la storia veniva scritta non sulla base di ciò che era accaduto, ma di ciò che sarebbe dovuto accadere, secondo la propaganda dei vari partiti. E tuttavia, per orribile che fosse, tutto questo era privo di qualsiasi importanza. Si riferiva ad aspetti secondari e precisamente alla lotta per il potere tra il Comintern e i partiti spagnoli di sinistra, e agli sforzi del governo russo di prevenire una rivoluzione in Spagna. Ma la descrizione sommaria della guerra, che il governo spagnolo presentava al mondo, non era falsa. I problemi fondamentali erano quelli indicati. Mentre invece i fascisti e i loro sostenitori come sarebbero potuti pervenire a un simile grado di verità? Come avrebbero potuto menzionare i loro veri fini? La loro versione della guerra era pura fantasia e, date le circostanze, non poteva essere altrimenti.
L’unica propaganda possibile ai fascisti e ai nazisti sarebbe stata di presentarsi come campioni cristiani, che salvavano la Spagna da una dittatura russa. Per fare ciò dovevano pretendere che la vita nella Spagna governativa non fosse che un continuo massacro (vedi il «Catholic Herald» o il «Daily Mail», anche se i loro articoli erano scherzi da bambini, paragonati alla stampa fascista continentale) e dovevano anche esagerare immensamente la portata dell’intervento russo. Dalla vistosa piramide di menzogna, che la stampa cattolica e reazionaria di tutto il mondo mise insieme, scegliamo questo solo punto: la presenza in Spagna di un esercito russo. Tutti i devoti partigiani di Franco vi credevano è giunsero a calcolare che questo esercito doveva ammontare a mezzo milione di uomini. Ora, in Spagna non ci fu mai un esercito russo. Ci poté essere un piccolo gruppo di aviatori e di tecnici, poche centinaia al massimo, ma un esercito mai. Ne sono testimoni le migliaia di stranieri che combatterono in Spagna, per non menzionare i milioni di spagnoli. Ebbene, la loro testimonianza non ebbe alcun effetto sui propagandisti di Franco, nessuno dei quali aveva mai messo piede nella Spagna governativa. Al tempo stesso questi tali rifiutarono ostinatamente di riconoscere l’intervento dei tedeschi e degli italiani, proprio mentre la stampa tedesca e italiana esaltavano le imprese dei loro legionari. Ho scelto questo singolo punto ma, in effetti, l’intera propaganda fascista sulla guerra fu sempre a questo livello. Questo tipo di cose mi spaventa, perché sovente mi fa nascere il sospetto che l’idea della verità obiettiva stia scomparendo dal mondo. Tutto considerato, c’è più di una probabilità che queste menzogne, o altre dello stesso genere, entrino nella storia. Come sarà scritta la storia della guerra spagnola? Se Franco resta al potere, i suoi uomini scriveranno i testi di storia e (per tornare al punto discusso poco sopra) quell’esercito russo, che non è mai esistito, diventerà un dato storico che gli scolari impareranno, generazioni dopo di noi. Ma supponiamo che il fascismo venga infine sconfitto e che una qualche sorta di governo democratico sia restaurato in Spagna in un futuro non troppo remoto… Ebbene, allora come sarà scritta la storia? Che documenti lascerà Franco dietro di sé? Anzi, supponiamo che i documenti raccolti dal governo si possano recuperare. Anche cosi come si farà a scrivere la vera storia della guerra? Perché, come ho già osservato, anche il governo spaccio menzogne all’ingrosso. Da una visuale antifascista si potrebbe scrivere una storia della guerra abbastanza veritiera. Ma sarebbe sempre una storia partigiana, inattendibile nei particolari. E tuttavia, si dovrà pur scrivere una storia che, dopo la morte di quelli che ricordano personalmente la guerra, verrà universalmente accettata. Così, ai fini pratici, la menzogna diventerà verità.
So che è di moda oggi affermare che la maggior parte della storia ufficiale è costituita da menzogne, e personalmente sono disposto a credere che la storia sia generalmente imprecisa e tendenziosa. Ma ciò che è tipico della nostra età è l’abbandono dell’idea che la storia possa venire scritta onestamente. In passato alcuni mentivano di proposito, altri inconsciamente coloravano in modo tendenzioso ciò che narravano, altri ancora cercavano di raggiungere la verità, pur sapendo che avrebbero commesso molti errori.
Ma tutti credevano che i fatti esistessero e che non fosse impossibile appurarli. […] Quando penso all’antichità, il particolare che più mi spaventa è che quelle centinaia di milioni di schiavi, sulle cui schiene poggio la civiltà, una generazione dopo l’altra, non hanno lasciato di sé traccia alcuna. Non ne conosciamo nemmeno i nomi. In tutta la storia greca e romana quanti nomi di schiavi conoscete? Io non so citarne che due o tre, al massimo. Uno è Spartaco, l’altro è Epitteto. In quanto al terzo, nella sezione romana del British Museum c’è un orcio di vetro che reca alla base il nome dell’artefice: Felix fecit. Riesco a immaginarmelo con vivezza il povero Felix (un gallo dai capelli rossi, con una collana di metallo al collo); ma potrebbe anche darsi che non fosse stato uno schiavo. Il che ridurrebbe a due i nomi di schiavi che effettivamente conosco, e non molti ne ricordano un numero maggiore. Tutti gli altri sono stati inghiottiti dal silenzio.»
Questa la guerra civile spagnola di Orwell.
Qui invece il racconto di quella vicenda di Leonardo Sciascia
Già il solo accostare questi due nomi dovrebbe non lasciare dubbi sulla dimensione totale del “fatto” e della vicenda storica del 1936.
Ancora una volta, quello che resta centrale è il ruolo degli intellettuali, e in particolare la loro latitanza o l’essere di parte.
In “Ore di Spagna” (capitolo decimo) Sciascia scrive:
«Non riesco a mettere a fuoco nella memoria il sentimento con cui nell’estate del 1937 andai alla stazione ferroviaria del mio paese per vedere Mussolini. I ricordi lontani sono un po’ come i sogni. Nessuno, credo, riesce mai a raccontare un sogno senza aggiungervi qualcosa e senza togliervi quella simultaneità che è propria alle cose e ai fatti che affiorano nei sogni. […] E così accade coi ricordi lontani: si assimilano ai sogni e come i sogni, senza volerlo e saperlo, finiamo col restaurarli, con l’aggiungere loro qualcosa, col creare o ricreare quei nessi perduti o smarriti, quell’ordine e consequenzialità che – a differenza dei sogni – non potevano non avere. In un pomeriggio d’estate, dunque, alla stazione ferroviaria del mio paese. Nelle immagini che me ne restano, non un solo sentimento riesco a ritrovare, ma due contrastanti: di entusiasmo per Mussolini; di pena, di commiserazione, per gli zolfatari che vestiti di pesanti abiti scuri se ne stavano aggrumati sotto il sole, vocianti e sudati, levando alto come un trofeo il grande cristallo di zolfo che avevano portato in dono a Mussolini. […] Avevo sedici anni, leggevo molti libri, a scuola andavo svogliatamente e come per passatempo; e avevo sempre avuto una certa avversione al fascismo per quel che mi obbligava a fare: la divisa da indossare, l’adunata del sabato, la cultura militare a scuola e l’immancabile tema sulle opere del regime – opere di cui nei paesi che conoscevo non c’era il minimo segno. Ma questa avversione, suscitata dalla pigrizia che ancora mi porto o mi porta (e debbo a questo peccato capitale tante buone scelte), non toccava allora Mussolini. Volendo restaurare il ricordo e tentare di unificare quei due sentimenti contra-stanti, potrei dire che il primo – l’ammirazione per Mussolini – era già insidiato dal secondo – la pena per gli zolfatari che si sgolavano e cuocevano sotto il sole aspettando Mussolini. Pena e commiserazione che venivano dal fatto che io già sapevo quel che loro ancora non sapevano: che il fascismo era contro di loro, che il fascismo li ingannava e vendeva. E questo sentimento, questa conoscenza, mi veniva dalla guerra di Spagna che appassionatamente seguivo in quel che sotto i miei occhi accadeva e nelle notizie che si potevano leggere sui giornali (e che bisognava leggere in un certo modo) o avere, in confidenza, da qualcuno. Quel che sotto i miei occhi accadeva era l’arruolamento dei volontari e le notizie della morte di qualcuno di loro portate dal podestà alle famiglie. Volontari che non erano volontari se non formalmente, in effetti costretti ad accettare il lavoro della guerra poiché non c’era per loro lavoro né nelle miniere né nelle campagne; e andavano ad affrontare la morte in Spagna senza sapere perché e contro la speranza di gente come loro. Era un fatto che mi indignava, che mi muoveva ribellione: che a combattere quella guerra andassero dei «morti di fame» (così, come accusandoli, li chiamavano i vecchi galantuomini diventati fascisti) e non quei gerarchetti che nelle adunate del sabato lucevano di placche, cuoi e brillantina e dicevano la guerra di Spagna essere una crociata contro i senza Dio e i senza patria e a che il «mare nostro» restasse nostro. Da quell’interesse, da quella indignazione, mi è venuto qualche anno dopo il racconto L’antimonio, tutto intessuto di ricordi di reduci dalla Spagna che ascoltavo in quei luoghi di conversazione che allora erano le barberie e le sartorie. Quel che sapevo della guerra di Spagna, nell’agosto del 1937 in cui Mussolini venne in Sicilia per le grandi manovre dell’esercito, e tenne ad ogni capoluogo un discorso, era questo: che il generale Franco si era ribellato al legittimo governo della Repubblica; che i «rossi senza Dio» non erano tutti rossi e non tutti senza Dio; che dalle due parti si fucilava la gente con la stessa intensità ma non con uguale legittimazione. Ho sempre avuto una specie di istinto giuridico: per cui le fucilazioni fatte dalla parte della Repubblica, per quanto avessi ripugnanza per la pena di morte, mi pareva obbedissero atrocemente alla legge, mentre da un potere informe, illegittimo e arbitrario erano quelle che si facevano dalla parte di Franco. Non ricordo se già sapevo che i franchisti avevano fucilato un poeta; sapevo però che nel mondo molti intellettuali si muovevano in favore della Repubblica e che ad Hollywood in favore della Repubblica sottoscrivevano registi ed attori di cui noi ragazzi, in quegli anni, facevamo mito. Comunque, il poco che sapevo non era poco: in un’Italia in cui la maggioranza delle persone, anche di quelle che leggevano i giornali, era convinta che non Franco fosse il ribelle, ma gli altri, i «rossi senza Dio». […] In quei giorni di agosto del 1937 era in corso una vittoriosa dalla parte dei ribelli e del Corpo Truppe Volontarie italiano, la battaglia per Santander. E si sentiva, nei discorsi siciliani di Mussolini, che le buone notizie dalla Spagna davano a lui e al suo sentirsi padrone del Mediterraneo. Il suo gioco, in politica interna ed estera, era al punto più alto e se ne aveva quotidiano riscontro nel comportamento ambiguo che appariva pavido e miserevole, dell’Inghilterra e della Francia riguardo, appunto, alla questione spagnola. Germania e Italia negavano di stare aiutando massicciamente Franco: ma a Santander c’erano, comandate dal generale Bastico, tre divisioni italiane, la legione Condor tedesca, aerei italiani e tedeschi. Né i giornali italiani nascondevano quel che i diplomatici negavano: pubblicavano notizie esaltanti e commoventi reportage; e per la vittoria di Santander non mancarono di pubblicare i telegrammi di congratulazione che Mussolini aveva mandato ai comandanti italiani. Tanta spregiudicatezza, oltre che al dispregio verso le pavide democrazie, era anche da ascriversi al bisogno che il fascismo aveva di celebrare una vittoria in terra di Spagna che facesse sbiadire il ricordo di una sconfitta. La sconfitta c’era stata, cinque mesi prima: ed era risuonata in tutto il mondo – tranne che in Italia, dove la notizia circolava in caute confidenze, in sussurri – col nome di Guadalajara. […] Il Corpo Truppe Volontarie, comandato dal generale Roatta, che verso Guadalajara avanzava su un fronte di trenta chilometri ed era arrivato ad occupare Brihuega e Jadraque, ad un certo punto era stato travolto dalla controffensiva repubblicana. C’erano anche truppe di Franco: ma si erano spinte quanto bastava per partecipare all’eventuale vittoria e per sottrarsi alla possibile disfatta. Dalla parte di Franco, la cronaca divenuta poi storia registrava l’8 marzo l’inizio dell’offensiva «nazionale» a Guadalajara, il 9 il proseguire dell’avanzata «nazionale»; ma il 19 è soltanto il Corpo Truppe Volontarie italiano che «termina su retirada en el kilometro 97 de la carretera de Guadalajara». […] Tutte le descrizioni che abbiamo letto della battaglia che qui si è combattuta tra l’8 e il 19 marzo del 1937 fanno pensare a un paesaggio aspro e insidioso; invece, tranne la vallata che corre a strapiombo di Brihuega, tutto vi è aperto e netto a perdita d’occhio. Ma era di marzo, nevicava e più di notte si combatteva che di giorno. Noi andiamo invece in giornate di sole, di nitido azzurro, serene; e quasi mezzo secolo dopo. Per due giorni abbiamo vagato cercando Palacio Ibarra: contadini e pastori cui ne domandavamo restavano come assorti a ritrovare quel nome nella più remota memoria, davano poi vaghe indicazioni accompagnandole con gesti incerti, di contrastante direzione. Verso destra, verso sinistra: da qualche parte, in quella zona, un Palacio Ibarra c’era, c’era stato. Palacio de Ibarra, esattamente. E l’abbiamo trovato per caso, imboccando una stradetta senza asfalto, privata e di vietato accesso. Quasi un chilometro: e ci siamo trovati davanti a un villino costruito non molti anni fa, alle cui spalle è un quadrilatero di vecchie costruzioni, molto somigliante alle masserie dei feudi siciliani. Il Palazzo Ibarra non c’era più, al suo posto era sorto quel villino: ma le case dei mezzadri, dei pastori, dei guardacaccia, i magazzini e le pagliere erano quelli di allora. I muri avevano ancora i segni delle pallottole, le sbreccature della mitraglia. I contadini, che stavano davanti alle porte a meriggiare, ci vennero incontro con cordialità. Ci confermarono che eravamo finalmente arrivati a Palazzo barra. «Siete i primi italiani» – ci dissero – «che vengono per domandare; spesso vengono degli italiani, ma per ricordare»‘. Loro non ricordavano: erano venuti subito dopo la guerra. Quel che sapevano lo avevano appreso dagli italiani che ci andavano per ricordare. Ma fino a pochi anni prima, nell’arare vedevano affiorare ossa di italiani. Si era combattuto duramente, sapevano: e indicavano un magazzino in cui feriti e moribondi erano stati ammassati nelle ore della battaglia. […] Per quindici anni si erano macerati nell’odio contro quel regime cui la gran parte degli italiani entusiasticamente consentiva: in esilio, in carcere, confinati nelle isole: ora finalmente potevano apertamente combatterlo e – almeno a Palazzo Ibarra – batterlo. Ma il fascismo che avevano di fronte era soltanto quello di qualche ufficiale, nemmeno di tutti; il resto era una massa di disoccupati venuta a raccogliersi da ogni angolo della Sicilia, delle regioni meridionali, sotto quelle ignote bandiere. Ed è da credere non parlasse alla loro coscienza, e comunque non li consolasse, l’enciclica Divini Redemptoris che proprio in quei giorni Pio XI lanciava a condannare gli eccessi contro chiese e preti che con imprevidente allegria si consumavano in territorio repubblicano. La cattolicissima Spagna. Ma il fatto è che appunto nella cattolicissima Spagna quegli eccessi potevano aver luogo. E ci furono, prima dell’»alzamiento», a provocarlo, e durante la guerra civile. Gli osservatori e gli inviati di estrazione diciamo protestante si può dire non se ne accorgessero (l’ambasciatore americano Bowers, l’inviato del New York Times Matthews); o forse pareva loro non avessero, nello scontro, grande importanza. Ma erano notevoli nella quantità e importantissimi nelle conseguenze: e però ne erano consapevoli pochi, e di poca forza, nello schieramento lealista e rivoluzionario della Repubblica. Perché dalla parte della Repubblica si viveva questa dicotomia, questo dramma: che coloro che la difendevano per lealtà, per dovere, per il principio della legittimità, del diritto, erano costretti a percorrere la strada della rivoluzione; e i rivoluzionari, che a far rivoluzione anche di loro avrebbero voluto liberarsi, di quello schermo di legittimità non potevano fare a meno. […] L’»alzamiento», il «pronunciamiento», il «golpe» (tre parole spagnole: e l’ultima ormai naturalizzata nell’italiano, a sostituire l’espressione «colpo di Stato»): nulla che possa così denominarsi è stata la guerra di Spagna; se non, si capisce, nelle intenzioni dei generali che la provocarono. Subito fallito a Madrid e a Barcellona, il colpo di Stato militare si poteva considerare effettualmente e interamente fallito. Il «golpe» si muta in guerra civile; e la guerra civile diventa prova e sintesi di guerra mondiale. Nell’autunno del 1937, da Madrid, Matthews scriveva: «Una guerra civile è il meno che stia accadendo qui, nella penisola spagnola. Si può definire questo conflitto in molti modi: come una lotta delle sinistre contro le destre, del proletariato contro il capitalismo, della democrazia, repubblicanesimo, socialismo, comunismo ed anarchismo contro il fascismo, della Russia contro la Germania, dell’Inghilterra contro l’Italia. Perché tanta brava gente di normale intelligenza chiude gli occhi di fronte a questo fatto?… Come è possibile che vi sia ancora della gente che ignora che la guerra spagnola sta mutando la faccia della terra? È impazzito il mondo o noi scrittori e giornalisti che sembriamo predicare in una landa di indifferenza e di ignoranza?». Aveva ragione: e il non aprire gli occhi di fronte a quella realtà lo si è pagato ad usura nella seconda guerra mondiale, dal ’39 al ’45 (e Roosevelt dirà all’ambasciatore Bowers: «avevate ragione voi, dovevamo intervenire in Spagna»). Ma la guerra civile non era il meno che stava accadendo in Spagna: quella che Azaña chiama «la lotta fratricida» corse spaventosa in ogni luogo, dalle grandi città ai più remoti paesi, e portò (ancora parole di Azaña) «l’animo di alcuni a toccare disperatamente il fondo del nulla». E non soltanto di alcuni, possiamo oggi dire. Quando paura e massacro – uno speciale tipo di paura, un massacro di incalcolabili (e ancora oggi incalcolate) concatenazioni e moltiplicazioni – durano freneticamente per tre anni, e non soltanto tra le parti che si affrontano, ma anche all’interno di una delle due parti, gli elementi storici e ideologici che costituiscono la ragione dello scontro finiscono col dissolversi e col dar luogo al puro terrore. L’esistenza come terrore. E viene di cercarne esempio in quel tempo più lontano che dal terrore prese nome, e di cui molto, molto meno che nella Spagna della guerra civile, furono le vittime. […] Il terrore da uomo a uomo, tra i vicini, tra i familiari, è proprio alle guerre civili: ma in Spagna arrivò a un parossismo che si potrebbe condensare in questo paradossale e tragico precetto: uccidi il prossimo tuo come te stesso. Vi si era aggiunto quello che Malraux, parlando di Stalin, chiama «pensiero statistico»: se io elimino un tale che ha conosciuto un tale che ha conosciuto un tale che ha conosciuto un tale che ha conosciuto un fascista, nel mondo non ci sarà più il fascismo. […] «Se fosse soldato o giornalista, spagnolo, americano, inglese, francese o italiano» – scrisse Matthews – «era cosa di poco conto. La Spagna era un crogiolo in cui le scorie si separavano e rimaneva l’oro puro. Faceva gli uomini pronti a morire lietamente e orgogliosamente. Dava significato alla vita; dava coraggio e fede nell’umanità… Là si imparava che gli uomini devono essere fratelli, che nazioni, frontiere, religioni e razze, non sono altro che attributi esterni, e nulla conta, e solo per un ideale di libertà vale la pena combattere». Parole che suonano oggi lontanissime e che nemmeno allora erano del tutto vere. Non erano certamente vere per gli spagnoli: e c’è da credere che, a parte quegli uomini d’azione come Lister e il Campesino e i generali che stavano dalla parte di Franco interamente dediti al fatto militare, al gioco di morte delle battaglie, non ci fosse spagnolo in cui le verità dette e scritte da Azaña, se non dolorosamente presenti nella coscienza e nettamente, non vi baluginassero apprensione, preoccupazione, disperazione.»
Ed è indicativo sul ruolo degli intellettuali quanto lo stesso Sciascia riporta in questo stesso scritto e in questo medesimo capitolo
«Dramma che trovava alta consapevolezza ed espressione in Manuel Azaña, Presidente della Repubblica, che da una vittoria della Repubblica, di una Repubblica non più democratica ma avviata a quel che poi fu detto «socialismo reale» (e cioè umanamente irreale), si sarebbe sentito sconfitto come lo fu dal fascismo. Della propria condizione, e di quella di coloro che ebbero i suoi stessi intendimenti, Azaña ebbe lucido giudizio e trasse dolorose previsioni. Dirà: «La legge, il diritto, l’ordine sono dalla nostra parte… Bisognava resistere e vincere. Questa necessità, questo dovere, costituiva di per sé una disgrazia irreparabile, pari alla mostruosità dell’attentato». E questa sua visione delle cose non la troviamo soltanto nella Veglia a Benicarló, scritta durante la guerra e pubblicata a Buenos Aires nel maggio del 1939 (Franco proclamò finita la guerra il primo aprile di quell’anno), ma anche nei suoi discorsi pubblici. Lo stesso Garosci, che nell’opera Gli intellettuali e la guerra di Spagna ne esalta la figura, si domanda ad un certo punto se un uomo politico ha diritto, nel corso dell’azione, alle angosciose confessioni personali nettamente espresse nei discorsi pubblici e che si assommano nei dialoghi della Veglia. Forse no. Ma che almeno gli uomini politici fossero in grado di provarle e di dibattervisi, le angosce di Azaña!»
«E a questo proposito voglio ricordare che mentre rivedevo la traduzione della Veglia, che poi Einaudi pubblicò, Paolo Grassi con grande interesse e impazienza me la chiedeva per farne rappresentazione al «Piccolo teatro» di Milano. Ma quando finalmente gliela mandai, fu il silenzio. Quando poi c’incontrammo, mi disse che non ne avrebbe fatto niente: «è un testo che rompe le scatole a tutti». Vero, e particolarmente vero in Italia e in quel momento. Ma è la più alta, nobile e solitaria espressione dell’angoscia del far politica che ogni uomo politico dovrebbe sentire. E forse se venisse oggi rappresentato continuerebbe a rompere le scatole ai politici, ma il pubblico sarebbe più sensibilmente disposto a coglierne quel che una volta si diceva il messaggio.»
«All’angoscia di Azaña, peraltro, rispondeva dall’altra parte, dalla parte di Franco, quella di Miguel de Unamuno. A suo modo cattolico (non credeva nell’immortalità dell’anima individuale pur ardentemente desiderandola) senza dubbio indignato di fronte alle violenze antireligiose che avevano preceduto e provocato la ribellione militare, dall’amata Salamanca subito caduta in mano ai franchisti si era dichiarato dalla loro parte. Il governo legittimo lo aveva destituito da rettore dell’Università, ma quello illegittimo efficacemente ve lo aveva confermato. Bisogna aggiungere che detestava Azaña: «Un autore senza lettori;» – diceva – «capace di fare la rivoluzione perché lo si legga». Battuta che si può devolvere a tanti autori senza lettori, anche di nostra conoscenza, ma non si attaglia ad Azaña: che magari avrà avuto pochi lettori ma non per questo si è trovato dalla parte di una rivoluzione che non voleva. Quel che di fatto li opponeva era la diversa visione della vita: tragicamente mistica in Unamuno, razionalmente laica in Azaña. Ma il 12 ottobre del 1936, come i due teologi nemici di Borges che nell’aldilà scoprono di essere una stessa persona, tra Unamuno e Azaña si stabilisce una specie di identità. Si celebra, nel paraninfo dell’Università, la festa della razza. C’è il vescovo, il governatore civile, la moglie di Franco. L’aula è piena di militari e di falangisti. Parla il generale Astray: definisce cancri nel corpo della nazione la regione basca e quella catalana; e che il fascismo saprà estirparli senza pietà. Dal fondo della sala qualcuno gridò: «Viva la muerte!»; altre grida si levarono inneggiando alla Spagna una, grande e libera. Parlò poi Unamuno: «Voi tutti mi conoscete e sapete che io non so restarmene zitto. A volte tacere equivale a mentire. Il silenzio può essere interpretato come acquiescenza. Io voglio ora commentare il discorso, se così si può chiamare, del generale Millan Astray. Lasciamo perdere l’affronto personale implicito nel violento sfogo contro i baschi e i catalani. Io personalmente, come ben sapete, sono nato a Bilbao. Il vescovo, gli piaccia o non gli piaccia, è catalano di Barcellona. Ed ora sento un grido necrofilo e insensato: ‘Viva la morte!’. E io che ho passato la vita a foggiare paradossi che suscitavano la collera di coloro che non li capivano, io debbo dirvi, come esperto in materia, che questo barbaro paradosso mi ripugna. Il generale Millan Astray è un invalido. Sia detto senza alcuna intenzione di sminuirlo. È un invalido di guerra. Anche Cervantes lo era. Ma oggi, purtroppo, in Spagna ci sono troppi invalidi. E presto ce ne saranno ancora di più, se Dio non verrà in nostro aiuto. Mi addolora pensare che sarà il generale Millan Astray a dirigere la psicologia di massa. Un mutilato che non abbia la grandezza spirituale di Cervantes, cerca di solito un macabro sollievo nel provocare mutilazioni intorno a sé». Il generale lo interruppe gridando: «Abbasso l’intelligenza! Viva la morte!». Ne ebbe una lunga e frenetica acclamazione. Ma Unamuno non tacque: «Questo è il tempio dell’intelligenza, e io ne sono il sommo sacerdote. Voi state profanando questo sacro recinto. Vincerete perché avete la forza bruta. Ma non convincerete. Perché, per convincere, dovrete persuadere. E per persuadere occorre proprio quello che a voi manca: ragione e diritto nella lotta…». Eccolo dunque arrivato alle due grandi parole, alle parole che sostenevano Azaña nel terribile dovere di difendere la Repubblica: la ragione, il diritto. Per la seconda volta, dal governo illegittimo, fu destituito da rettore. E morì meno di tre mesi dopo, l’ultimo giorno dell’anno 1936.»
«[…] mi è stato raccontato che il primo dissenso tra Vittorini direttore del Politecnico e il Partito Comunista Italiano nacque dal fatto che Vittorini aveva cominciato a pubblicare sul settimanale il romanzo di Hemingway [Per chi suona la campana, ndr]: cosa ai comunisti non gradita appunto per come André Marty – che il Partito Comunista Francese avrebbe espulso meno di dieci anni dopo – vi era rappresentato. Di questo fatto non mi pare si trovi memoria in tutti gli scritti sulla fine del Politecnico in cui mi sono imbattuto, sicché qualcuno può avere anche buon gioco a dire che sto inventandomelo. E del resto, mi è capitato di peggio. (Ma si veda il Politecnico gennaio-marzo ’47: pare evidente che l’incidente c’era stato e che Vittorini tenta conciliare l’obbedienza al Partito con la propria libertà di giudizio).»
Ogni paese ha nella sua storia delle fratture.
Fratture nazionali, come quella di Acca Larentuia, da cui siamo partiti per questa riflessione, e la guerra civile in Spagna, come frattura mondiale.
Entrambe sono emblematiche di un “luogo nel tempo” che poteva essere e non è stato e da cui si è dipanata una Storia.
C’è stato un prima, e c’è stato un dopo.
Ma quel momento non affrontato e non approfondito, e quindi non compreso, resta sospeso.
E questa sospensione non è neutra, né neutrale.
È l’abdicazione dell’autentica funzione dell’intellettuale nella società, quando diventano (oppure restano a seconda dei punti di vista) i “commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico” nella definizione di Antonio Gramsci, o Più in generale diventano funzionari del consenso e tecnici al servizio di un’ideologia.
Dov’erano gli intellettuali in quei momenti?
Se togliamo Orwell o Hemingway in Spagna, e svariati anni dopo uno Sciascia in Italia (per quello che disse sulla Spagna quanto sul molto – e troppo non letto – sull’Italia) lo scenario appare desolante.
Una schiera di nomi schierati a legittimare una posizione – attività per la quel serve ben poco coraggio essendo coperti dall’ampio abbraccio del proprio gruppo di appartenenza – e ben pochi a manifestare il coraggio – quello vero – di dire che forse le cose erano diverse.
Le parole compagno e camerata hanno un significato simile, eppur diverso.
Camerata, secondo la Treccani, indica una compagnia di soldati o di collegiali che vivono insieme nella stessa camerata, un sodalizio di persone che si riuniscono a scopo di studio o d’arte e indica per traslato il “compagno d’arme, commilitone”
Compagno, secondo la stessa fonte, indica “che fa il paio” con un altro, pari, uguale per qualità o valore, termine composto. di cum «insieme con» e panis «pane», ovvero «colui che mangia il pane con un altro».
Se il compagno condivide il pane, il camerata condivide la dimora.
Più che una definizione di “compagni che sbagliano” accompagnata da una generica “condanna della violenza”, una posizione intellettuale degna di questo nome – che davvero avrebbe dato un contributo alla crescita della società intera, avrebbe dovuto essere qualcosa del tipo “chi sceglie il terrorismo armato non è un compagno, perché io io non divido il mio pane con chi fa una scelta del genere”.
Parimenti dall’altra parte, più che una teoria di “sigla inventata” e di negazionismo aprioristico, sarebbe stato intellettualmente auspicabile qualcosa del tipo “non ha dimora qui, e non condivide la nostra casa, chi sceglie la violenza come strumento di lotta politica”.
Sarebbe stato forse più chiaro, ma questa chiarezza richiede un coraggio che è mancato alla società italiana, ma non per colpa sua, per responsabilità precisa – e scelta razionale – della classe intellettuale del nostro paese.
Per parte loro ci provarono in Spagna, a distanza, Azaña e Miguel de Unamuno, e forse la loro onestà intellettuale, il loro grido, li ha resi, proprio in quel gesto di onestà tanto vicini, almeno quanto lontani furono per interessi miopi e microscopici il POUM e i Comunisti spagnoli, che invece la storia avrebbe voluto vicinissimi.
Le pressioni in senso censorio su Vittorini e su Paolo Grassi, la dicono lunga sulla scelta degli intellettuali auto-definitisi di sinistra di essere solo e niente più che “commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico”.
Nulla se ci pensiamo bene è più distante dall’essere di sinistra, autenticamente, perché questa è la scelta di chi diventa tecnico e intellettuale addetto all’oppressione e alla legittimazione dell’oppressione (nelle perifrasi di Basaglia).
Una scelta non neutrale, che ha congelato la storia e che non ha consentito una pacificazione nazionale autentica, alimentando – invece che affamando – le divisioni e le logiche dei blocchi contrapporti, tanto transnazionali quanto della società civile, in primis dei giovani.
Tutto per mantenere inalterate le proprie rendite di posizione personale.
Credo che non esista nulla di più simile, a ben vedere, della definizione di “reazionario in concreto”.
È come se riecheggiasse quel grido «Abbasso l’intelligenza! Viva la morte!» che non riuscì a zittire Unamuno, ma che ha tarpato le ali a intere generazioni ingessate nel dovere fideistico dell’accettazione acritica di uno status quo.
Del resto, la figura dell’intellettuale, passando per la sua trasformazione di “addetto amministrativo alla legittimazione della parte” ha creato un vero e proprio ceto amministrativo reazionario.
Un ceto vero e proprio, quando non casta vera e propria, che ha tenuto fuori dalla stampa e dalle università quanti più non allineati possibile.
Si badi, non “allineati al pensiero” di uno specifico partito politico – anche se lo è stato in gran parte – quanto all’idea amministrativa stessa.
Basta che tu sia “di parte”, di qualsiasi parte: è questa l’ideologia neutra della neutralità “dell’intellettuale commesso per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico”.
Quello che non deve accadere, per salvaguardare la difesa e la rigenerazione della burocrazia amministrativa “dell’intellettuale e tecnico addetto” è che compaia un “intellettuale onesto e indipendente”, che non sia di parte, che sia libero di critica ed anche autocritica.
Cercò di esserlo, e non ci riuscì sino in fondo, Pasolini; fece di tutto per esserlo, e in massima parte ci riuscì, Sciascia.
Ancora oggi l’unico motto possibile sulla bandiera dell’intellettuale autentico resta quello di Pasolini “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine, che è la mia debolezza.”
Inutile dire che il colore della bandiera dell’intellettuale non può che essere inesorabilmente e ineluttabilmente il bianco.
Michele di Salvo es CEO de Crossmedia Ltd. Especializado en relaciones públicas y comunicación. Escribe en micheledisalvo.com, colabora con numerosos medios de comunicación y es especialista en estrategia de campañas. (@micheledisalvo)
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Riferimenti bibliografici
DI SALVO, M. – Viaggio in Italia, Gli anni di piombo – ASIN B0097H1UAG – https://www.amazon.it/Viaggio-Italia-gli-anni-piombo-ebook/dp/B0097H1UAG/ (2012)
BASAGLIA, F. – Crimini di Pace – Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione – Baldini e Castoldi (1975 – 2018)
GRAMSCI, A. – Quaderni dal carcere – Einaudi (2014)
SCIASCIA, L. – Afutura memoria – Adelphi (2017)
SCIASCIA, L. – Ore di Spagna – Contrasto (2016)
AZAÑA, M. – La veglia a Benicarló – Minimum Fax (2021)
ORWELL, G. – Looking back on the Spanish War (1942)
ORWELL, G. – Omaggio alla Catalogna” (1938)