L’unità nella varietà delle posizioni
Noi abbiamo accentuato in questi anni la spinta verso l’unità del Partito, la quale è già nelle cose, nella natura cioè e nella funzione della D.C., nella sua responsabilità verso un elettorato così vasto e complesso al quale s’ispira naturalmente fiducia nella possibilità ed utilità del ritrovarsi unito nella misura nella quale una tale esemplare unità si ritrovi nel Partito che lo rappresenta. Alla unità della D.C., non dimentichiamolo mai, cari amici, non dimentichiamolo soprattutto nei momenti difficili, sono legati il prestigio, il primato e la funzione della D.C. nella vita nazionale. Non si tratta dunque di fare un calcolo, il che non tornerebbe ad onore della D.C., ma piuttosto di prendere e riprender coscienza ad ogni istante del significato storico del nostro partito, della responsabilità che ricade su di noi, della possibilità che ci è offerta, proprio per quello che noi siamo, di realizzare una vasta mobilitazione popolare che fondi su sicure basi di giustizia e di solidarietà la libertà del nostro Paese.
Abbiamo accentuato dunque, dicevamo, la spinta verso l’unità del partito. Abbiamo voluto la durevole e felice esperienza della Direzione unitaria, che crediamo sia stata e sia per essere anche in avvenire, pur con gli inevitabili inconvenienti, uno strumento importante per assicurare la comprensione, la collaborazione, l’apporto costruttivo di tutte le idee alla determinazione della linea politica e alla attuazione di essa nell’azione concreta della D.C. Abbiamo accentuato questa spinta, sforzandoci di trasformare il dato significativo della Direzione unitaria da fatto di vertice ad espressione periferica del Partito, facendo del rispetto, dell’apprezzamento, dell’incontro dei democratici cristiani un modo reale di vita e non una sovrastruttura formale. Abbiamo accentuato questa spinta con il riconoscimento della piena cittadinanza di tutti i democratici cristiani nel Partito senza discriminazione alcuna, con il meccanismo di non formali consultazioni, con l’invito cordiale alla collaborazione, con la valorizzazione di tutte le idee, di tutte le competenze, di tutte le esperienze in seno alla D.C. L’invito pressante all’unità non significa invito alla unanimità non è stata richiesta nella Direzione neanche in momenti difficili e, quando essa vi è stata, ha voluto significare libero convincimento della validità di talune tesi politiche al di là di ogni pregiudiziale di parte ed accentuato senso di responsabilità verso il Partito e verso il Paese. La unanimità non è stata e non è richiesta nel Partito come una condizione della indispensabile unità della D.C. Tutt’altro. In verità il Partito si serve non con un inammissibile conformismo, non con lo sbiadire le posizioni particolari ed il contributo originale di ciascuno alla caratterizzazione politica del Partito, ma proprio con l’apporto libero e convinto delle proprie tesi, con il dibattito costruttivo, con l’accettazione disciplinata della legge democratica della maggioranza. Così come sarebbe tradimento dell’elettorato la rottura od incrinatura della unità della D.C., così sarebbe per un altro verso mancanza ad uno stringente dovere la fittizia unanimità delle posizioni del Partito, che è cosa riprovevole tanto quanto l’artificiosa accentuazione di punti di vista particolari. In realtà solo il gioco delle maggioranze e delle minoranze, che si delineano in un dibattito regolato, garantito, veramente libero, fa di un partito una forza democratica. Le minoranze sono essenziali al Partito sia per la loro vivace iniziativa che non dev’essere compressa sia per la loro disciplina che garantisce la necessaria libertà di movimento della D.C. L’unità dei Partito non è dunque compromessa dalla diversità delle posizioni, ma semmai dalla loro minore compostezza. L’unità che scaturisce dalla dialettica maggioranza-minoranze è del resto proprio quella posizione di equilibrio dinamico che garantisce l’assolvimento della funzione propria del Partito nella collettività nazionale. Le minoranze dunque contribuiscono a definire il vero volto della D.C. e ne assicurano l’equilibrio interno così come di riflesso l’equilibrio politico generale del Paese.
Finché sia garantita pienamente la dialettica democratica in seno al Partito il peso delle decisioni della maggioranza non è insopportabile per le minoranze. Esse hanno una loro posizione, la cui efficacia non può essere misurata alla stregua di un inammissibile piegarsi della maggioranza alla volontà delle minoranze. Esse hanno invece il diritto, il dovere e la concreta possibilità di proporre, illuminare, seguire, controllare, criticare l’attuazione della linea politica della maggioranza, di sviluppare quei motivi polemici che possono trovare una ragione di affermazione nello sviluppo della situazione politica.
La rottura del rapporto maggioranza-minoranza, che è sempre suscettibile d’inversione, è un’abdicazione ai propri compiti, la rinuncia ad una seria prospettiva, una ragione di turbamento, di disordine e di ritardo nella vita democratica del Paese. Quale che sia la giustificazione che si voglia addurre, si tratta di un momento negativo e non costruttivo, di una perdita di contatto con gli ideali del Partito e non di un modo di servirli meglio.
La D.C. ha conosciuto molte prove, ha affrontato molte difficoltà soprattutto con la forza della sua unità. Nulla induce a credere che, in presenza di prove e difficoltà di tanto rilievo, quali l’attendono in questo momento, essa abbia a temere il venir meno di questa sicura garanzia per l’assolvimento dei suoi compiti nella democrazia italiana.
L’insostituibile funzione dei partiti
In quello che abbiamo detto è implicito il riconoscimento della insostituibile funzione dei partiti, e naturalmente del nostro, nella vita politica del Paese. Non si può polemizzare sul cosiddetto strapotere dei partiti e sulla invasione che essi compirebbero nella sfera di potere propria degli organi costituzionali. La polemica sulla partitocrazia è essenzialmente una polemica di destra. Pretendendo di porsi come correzione di abusi compiuti nell’azione dei partiti, essa ha di mira in realtà l’emergere di opinioni, l’affermarsi d’interessi, l’elevarsi fino a posizioni di potere di ceti che si era abituati a considerare fuori gioco. Ma le democrazie moderne con una vastissima base popolare, con il necessario raccordo tra potere di vertice e fonte del potere, con il significato sostanziale e non meramente formale che assumono, non possono fare a meno della iniziativa politica dei partiti e dell’opera di mediazione che essi svolgono, per dare efficace ispirazione ed effettiva base di consenso, in ogni momento, allo Stato democratico. In realtà, quando i partiti indirizzano e condizionano organi parlamentari e di governo, non è che essi si sovrappongano prepotentemente agli organi costituzionali, condannandoli alla passività ed all’impotenza, non è che operino di fronte ad essi come forza estrinseca e senza ricevere a loro volta l’apporto di responsabili valutazioni e di proprie iniziative degli organi costituzionali.
Questi ultimi sono partecipi della vita dei partiti, sono dentro il complesso lavoro di selezione e di indicazione di obiettivi politici che essi compiono. Quel che i partiti indicano, Governo e forze parlamentari, che ne sono parte eminente, hanno contribuito a determinare. Sono i partiti che danno all’azione politica generale continuità, coerenza, unità, consentendo un’iniziativa parlamentare e governativa sottratta alla disorganicità, la quale diventa fatale, ove non vi sia chi faccia da collegamento con la volontà popolare ed assuma la responsabilità, da una elezione all’altra, di precisi impegni politici, ai quali dare attuazione nella varietà delle formule e delle articolazioni parlamentari e governative.
Questa armonia, che garantisce la continuità dell’impegno politico nel corso degli anni, è stata naturalmente perseguita dalla D.C. e si è largamente realizzata. I Governi che si sono succeduti ed i Gruppi parlamentari sono stati parte viva, significativa, altamente responsabile nella vita della D.C., hanno contribuito a fare del Partito quello che è nella realtà del Paese; si sono riconosciuti in essa; hanno accettato con libera determinazione la qualificazione politica e la disciplina conseguente che essi stessi in tutte le sedi hanno contribuito a formulare. In rapporti come questi, così difficili e delicati è inimmaginabile che non vi siano di quando in quando punti di frizione e che l’armonia non emerga qualche volta con un certo sforzo, attraverso un processo di chiarificazione ed una progressiva volenterosa intesa.
Ma proprio perché si tratta di problemi così delicati e difficili, del rapporto tra responsabilità così significative ed importanti, di un complesso gioco di azioni e reazioni dal cui retto funzionamento dipende la normalità costituzionale e quella politica, nessuno potrà pensare che vi sia da fare ricorso ad altro che a quel saggio e prudente funzionamento del Partito che ritrova ad ogni istante la sua unità nel libero gioco di tutte le sue articolazioni ed espressioni.
Le fonti dell’ispirazione ideale della D.C.
Per completare la indicazione di quello che il nostro Partito si è sforzato di essere in questi anni, mi sembra opportuno di richiamare le fonti e le ragioni della ispirazione ideale della D.C.
La D.C. ha alla sua origine e come elemento di qualificazione sempre attuale il suo richiamo alla concezione cristiana della vita ed un costante riferimento ai valori religiosi, spirituali e morali che appunto in essa sono affermati. La D.C. pone a base della propria azione la visione cristiana dell’uomo e della società, dei diritti di libertà e dei doveri di solidarietà sociale, della sfera di autonomia propria della persona e dei gruppi sociali e del potere di comando e d’intervento dello Stato. Essa trova questi ideali largamente vissuti nell’esperienza storica alla quale il cristianesimo ha dato luogo nel corso dei secoli. Se obiettivo di una forza politica che operi in una democrazia moderna, è di salvaguardare nel modo più completo la dignità ed i diritti della persona umana, dove la D.C. potrebbe attingere meglio ispirazione e guida se non nell’ambito di una dottrina e di una esperienza che, come quella cristiana, dà alla persona una posizione dominante e ne fa il principio e la fine di ogni processo storico? E se si presenta, in una democrazia ricca di contenuto, indissolubile da quella esigenza, l’altra di assicurare all’uomo in concreto il suo giusto posto nella società, di legarlo in solidarietà significative, di trovare una ragione d’incontro tra gli uomini, dove si potrebbe attingere più utilmente che a quella dottrina ed esperienza cristiana che pone i doveri di solidarietà accanto ai diritti di libertà, che punta sulla eguaglianza degli uomini, che esclude egoismi e chiusure? La D.C. afferma dunque la piena idoneità della dottrina sociale cristiana a risolvere nella sua interna coerenza ed armonia i problemi della società democratica.
Le collaborazioni alle quali la D.C. è stata e presumibilmente sarà chiamata in avvenire con partiti ispirati a diverse ideologie, la situazione cioè, nella quale essa si è trovata e può trovarsi ancora, d’incontrarsi con altre forze e di concorrere con esse realizzare un programma comune, non ha significato in passato e non significherà certamente in avvenire che la D.C. abbandoni suoi principi ed ideali e si rassegni alla loro insufficienza. Una tale integrazione del resto è sul terreno dei principi impossibile, proprio perché si tratta di principi diversi e non conciliabili, mentre necessità ed opportunità politica possono imporre o consigliare l’incontro tra forze ispirate a diversi principi, le quali tuttavia convengano su alcune cose da fare, su alcuni obiettivi da perseguire nell’interesse della comunità.
Più specificamente, i valori morali e religiosi ai quali la D.C. s’ispira e che essa vuole tradurre in atto il più possibile nella realtà sociale e politica sono destinati ad affermarsi nella vita democratica del Paese, nella quale la D.C. è inserita e nella quale essa li porta. Si tratta dunque di un’affermazione non secondo l’assolutezza proprio di questi valori, ma nella lotta, nel dibattito, nelle gradualità ed incertezze proprie della vita democratica. Ciò dimostra il salto qualitativo che dati della coscienza morale e religiosa sono costretti a fare, quando essi passano ad esprimersi sul terreno del contingente, quando sono affidati ad una difesa sì efficace com’è quella di un grande Partito, ma con gli strumenti ed i modi propri della lotta politica. Ciò vale, naturalmente, in misura anche maggiore per quelle che sono propriamente applicazioni o specificazioni di quei valori, scelte concrete di ordine politico che evidentemente nessun cristiano s’indurrebbe a ritenere del tutto estranee ai supremi valori della vita morale e religiosa, ma che obbediscono tuttavia alla legge di opportunità, di relatività, di prudenza che caratterizza la vita politica, che soprattutto risentono della necessità del confronto, si affermano nella misura in cui riescono a conquistare il maggior numero di consensi, si presentano su di un terreno comune con altre ideologie il quale non può essere quello proprio delle idealità cristiane e con un preciso e rigoroso criterio di verità. Questo dice quanto sia difficile e tormentata la nostra azione sul terreno democratico e quali limiti si trovino sul cammino dei cattolici impegnati nella vita politica, quali rischi si corrano, quale senso di riserbo, di equilibrio, di misura siano necessari per svolgere con vantaggio il difficile processo di attuazione della idea cristiana nella vita sociale.
Anela, dunque, perché è così grande l’impegno, anche perché vi sono tali remore e riserve, anche per non impegnare in una vicenda estremamente difficile e rischiosa l’autorità spirituale della Chiesa, c’è l’autonomia dei cattolici impegnati nella via pubblica, chiamati a vivere il libero confronto della vita democratica in un contatto senza discriminazioni. L’autonomia è Ia nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale. E nel rischio che corriamo, nel carico che assumiamo c’è la nostra responsabilità morale e politica e l’adempimento di un dovere costituzionale, il quale, essendo sancita l’autonomia nel proprio ordine della comunità politica, riconduce in questo ambito i diritti ed i doveri relativi alla concreta attuazione di essa. Il che non vuol dire naturalmente che nell’esercizio di questi diritti e nell’adempimento di questi doveri siano assenti valutazioni morali e religiose o che nel loro esercizio ed adempimento sia richiesta una neutralità ideologica, ché invece l’accettazione incondizionata di un terreno comune, quello del dibattito e del libero convincimento, lascia libero l’apporto di ciascuno ed ampio campo di esplicazione alle ispirazioni ed agli ideali presenti nella realtà sociale del nostro Paese.
Le consultazioni elettorali nel biennio
Nel corso di questi anni la D.C. ha affrontato importanti competizioni elettorali le quali hanno investito, sia pure sul terreno delle amministrazioni locali, si può dire tutto intero il corpo elettorale. Si può notare che la consultazione è avvenuta a più riprese, nei più diversi momenti politici, nelle più diverse circostanze, con una continuità che ha fatto di questa prova un modo di essere pressoché normale del Partito. E’ poi da ricordare che le elezioni hanno riguardato tutti i tipi di autonomie locali e cioè i comuni, le province, per le quali è stata applicata per la prima volta la legge elettorale proporzionale, e due regioni a statuto speciale che presentavano particolari problemi ed esigenze.
Ora, tenendo conto del carattere amministrativo delle consultazioni del corpo elettorale alle quali si è proceduto e del loro snodarsi nel tempo, si può apprezzare meglio il successo della D.C., della quale si è potuta riscontrare, si può dire, momento per momento, e nell’intrico di difficili situazioni locali, la presenza, l’autorità, la capacità di persuadere ed orientare. Tant’è vero che la polemica obbligata, relativa al presunto indebolimento della D.C., si è andata spegnendo rapidamente. Il P.C.I., il quale aveva concepito l’ambizioso proposito di condurre con successo una battaglia a fondo, per rompere il cosiddetto monopolio politico della D.C., ha dovuto registrare la permanente unità e forza della D.C. E così il Partito Socialista, che aveva puntato su di un sensibile indebolimento del nostro Partito il quale potesse consentirne un condizionamento più acuto ed efficace. Le destre di varia osservanza infine, le quali attendevano una drammatica sconfessione da parte del corpo elettorale per la D.C., accusata di avere ceduto alla prepotenza comunista, hanno dovuto prendere atto dell’incoraggiamento e del riconoscimento che proprio dal corpo elettorale sono venuti alla D.C. per la sua battaglia democratica e la sua opposizione ad ogni totalitarismo. Tenuto conto dello scarto costante precisamente misurabile che si riscontra per la D.C., per ben comprensibili ragioni, tra risultati amministrativi e politici, come del resto ho potuto documentare in Consiglio Nazionale, si può ritenere sulla base dell’ultima consultazione che elezioni politiche troverebbero la D.C. non solo con intatta posizione di forza, ma anche in sicuro progresso. È certo comunque che la presenza nel Paese della D.C. è stata confermata in tutta la sua determinante importanza così come è stata sottolineata ancora una volta la sua funzione di garanzia e di guida della democrazia italiana. Il successo della D.C. ha poi, in certo senso insperatamente, toccato in Sardegna il traguardo significativo della maggioranza assoluta, premiando una impostazione di Partito ed un’azione di Governo in tutto conformi alle attese delle generose genti sarde. Il risultato ci pare vada sottolineato con senso di giusto orgoglio, anche se non riteniamo se ne possa trarre senz’altro l’indicazione di una tendenza generale del corpo elettorale. A questo proposito, oltre che le nostre ben radicate convinzioni, anche l’esperienza sarda ci permette di respingere le riaffioranti accuse rivolte al preteso integralismo della D.C., la quale in Sardegna ha voluto rinnovare la feconda collaborazione con il Partito Sardo, che ne aveva confortato e reso possibile nel passato quadriennio l’azione di Governo.
Le elezioni amministrative, a parte il successo innegabile della D.C., hanno visto fermarsi in modo sensibile i partiti della convergenza democratica, i quali hanno spesso riguadagnato posizioni di fronte ai risultati delle elezioni politiche ed hanno potuto dimostrare ai facili critici come essi siano, pur con un seguito ristretto, ma qualificato, forze politiche vive ed autorevoli nel nostro Paese.
E’ stato poi registrato un ulteriore complessivo declino delle forze di destra, la cui politica ha sempre minore risonanza nel corpo elettorale. Nell’ambito però della destra si è determinato un rafforzamento delle posizioni estrema, che fa riscontro ad analogo incremento dell’estrema sinistra a spese talora di posizioni socialiste la cui ambiguità ha trovato una sanzione del corpo elettorale. Tra i dati emergenti dalle recenti consultazioni elettorali è doveroso registrare questo irrigidimento pericoloso delle estreme dello schieramento politico, il quale conferma la giustezza della politica responsabile di arbitrato democratico perseguita costantemente e soprattutto in questo ultimo periodo dalla D.C. Del resto la D.C. ha sottoposto ad attento esame fin nella sua periferia il fenomeno della permanente vitalità del P.C.I. per ricavarne indicazioni significative per la sua azione politica. Essa non intende sottovalutare la gravità del pericolo e l’esistenza di un problema costituito dalla intatta forza del Partito Comunista, anche se si rifiuta di prospettare un modo di lotta diverso da quello della piena attuazione ed espansione della vita democratica del Paese che ha sinora praticato.
La D.C. e le autonomie locali
Le recenti elezioni amministrative ci hanno offerto una volta di più l’occasione di riconfermare l’originario e permanente favore della D.C. per le libere articolazioni dello Stato, per quelle autonomie locali con le quali ed attraverso le quali il nostro Partito è assurto ad una posizione di alta e crescente responsabilità nella vita pubblica. Questo favore riflette la nostra fondamentale fiducia nelle complesse e varie manifestazioni della libertà, il nostro convincimento che solo un modo di essere pluralistico della comunità, rompendo gli irrigidimenti delle forme accentrate di vita e di potere, sia idoneo ad esprimere il senso completo della libertà umana ed a realizzare un coerente ordinamento democratico della società. Abbiamo avuto ed abbiamo fiducia nelle autonomie locali come centri di interessi, di ideali e di poteri, come strumento efficace per la soddisfazione delle esigenze popolari, come meccanismo agile ed aderente alle necessità della programmazione economica.
Queste sono le posizioni di sempre della D.C., alla quale si deve poi se, in momenti difficili della vita nazionale e della riedificazione dello Stato democratico, le autonomie locali non sono state corrotte e asservite a finalità eversive, tramutate in strumento di opposizione allo Stato democratico. Nessuno perciò ha bisogno di richiamarci dal di fuori come all’adempimento di un dovere costituzionale. Ci basta essere noi stessi, per affermare la necessaria, istituzionale articolazione dello Stato democratico, per sottolineare con particolare vigore, in questa rinnovata impostazione programmatica, il nostro impegno di valorizzazione delle autonomie locali, ed il dovere dello Stato a porre in essere in tema di legislazione dei lavori pubblici, della finanza locale, degli ordinamenti e dei controlli, della politica sanitaria, assistenziale, giovanile, scolastica, tutto quello che può ravvivare e rendere veramente feconde le autonomie locali.
Non accettiamo dunque lezioni dai comunisti, tiepidi ed opportunistici assertori delle autonomie. Non accettiamo soprattutto da loro le critiche per i ritardi o le remore che hanno caratterizzato per una parte la politica delle autonomie locali, il che è appunto dipeso largamente dal rischio che talune importanti articolazioni autonomistiche potessero essere egemonizzate dai comunisti ed utilizzate a fini eversivi. Il nostro discorso per quanto riguarda gli impegni autonomistici del Partito si estende naturalmente all’istituto regionale, la cui attuazione è da completare a norma della Costituzione sia per quanto riguarda le regioni a statuto speciale ancora da realizzare, sia per quanto riguarda le regioni a statuto ordinario.
Le difficoltà che si sono frapposte all’attuazione di questo istituto sono note e sono di ordine politico generale. Non sottovalutiamo certo il problema del finanziamento delle regioni e la necessità che esso sia raccordato al problema generale, non ancora del tutto risolto, della finanza locale.
Non ignoriamo il problema politico del tipo di maggioranza da stabilire in questi importanti centri di potere, dei quali è difficile immaginare priva di conseguenze la difformità dalle direttive politiche generali del Paese. Ed infine non sottovalutiamo l’importanza delle leggi quadro dalle quali risultano la delicata delineazione dei confini tra le competenze statali e quelle regionali e la garanzia di un retto funzionamento dell’istituto autonomistico. C’è dunque un complesso di problemi da risolvere e che debbono essere affrontati. Solo che noi non riteniamo, per gravi che essi siano, che li si possa adoperare come mezzi di rinvio dell’attuazione costituzionale. Essi sono e devono restare problemi relativi alle modalità di attuazione, problemi ai quali dedicare tutta l’attenzione che meritano senza pratiche elusive che sarebbero soprattutto in questo momento ed allo stato di maturazione dell’opinione pubblica su questo tema meschine ed incomprensibili. È stato detto che la Costituzione va modificata là dove essa appaia di impossibile o svantaggiosa attuazione. Ed è vero. Ma noi, pur con tutte le cautele che abbiamo letto, riteniamo che in questa materia si debba procedere sulla via dell’attuazione non tanto in omaggio alla lettera della Costituzione, ma nella originaria e rinnovata consapevolezza della D.C. che nelle autonomie locali, nelle articolazioni a tutti i livelli della vita democratica, nella creazione attraverso le regioni di centri consistenti di raccordo tra gli enti sociali minori, come del resto attraverso un vasto decentramento dell’amministrazione dello Stato, si avvicina efficacemente la cosa pubblica al cittadino, si fonda stabilmente la democrazia nel nostro Paese, si dà il miglior sostegno allo Stato democratico.
La situazione internazionale
La situazione internazionale, nei due anni che vanno dall’ultimo Congresso di Firenze a questo di Napoli, ha registrato una serie di vicende assai tempestose: sotto certi aspetti forse le più gravi di tutto il tormentato periodo seguito al secondo conflitto mondiale, periodo durante il quale le continue alternative tra la speranza della pace e il timore della guerra raramente giunsero alla drammatica intensità che hanno avuto nei mesi alle nostre spalle.
Prima di valutare i caratteri ed i motivi di questo indubbio aggravamento delle relazioni internazionali e prima di tracciare le prospettive che sembra di poterne ricavare per il futuro, credo torni utile confrontare quali erano le situazioni in presenza delle quali ci incontrammo nell’autunno del 1959 a Firenze e le situazioni di fronte alle quali ci troviamo oggi. Il Congresso di Firenze si aprì nell’atmosfera di moderato ottimismo suscitata dal famoso incontro di Camp David tra Eisenhower e Kruscev, che ebbe luogo tra il 25 e il 27 settembre del 1959. L’on. Segni, che era allora Presidente del Consiglio, poté portarci un’eco diretta ed autorevole di ciò che quell’atmosfera lasciava sperare, avendo avuto proprio pochi giorni prima del Congresso l’occasione di incontrarsi a Washington con Eisenhower a brevissima distanza dai colloqui del Presidente americano con il Capo del Governo sovietico. La crisi d Berlino, già allora impedente, sembrava uscita dalla fase minacciosa degli ultimatum ed avviata verso il negoziato. Anche l’eterna pietra di paragone del disarmo pareva prospettare un certo possibilismo: il 2 novembre del 1959 l’Assemblea delle Nazioni Unite aveva infatti votato una risoluzione concordata, in cui si affiancavano le firme del delegato americano e del delegato sovietico, piena di promesse per i futuri sviluppi delle annose trattative in tema di interdizione delle esplosioni nucleari e di graduali intese per una generale limitazione degli apparati militari. Su quei due temi — Berlino e disarmo — che sono stati e continuano ad essere i temi di fondo della guerra fredda, i primi passi del 1960 si mostrarono incoraggianti. In gennaio Kruscev diede ampia pubblicità alla sua decisione di ridurre gli effettivi militari dell’Unione Sovietica, nel marzo si riunì a Ginevra il Comitato dei Dieci per il disarmo, e la morsa — fisica e psicologica — che aveva serrato Berlino alla gola dal novembre 1958 parve allentarsi in previsione di nuove trattative imminenti.
Questo era lo spiraglio di luce di due anni fa.
Oggi nel cuore di Berlino è stato rizzato un muro di pietra, e nelle distese dell’Artico è stata fatta esplodere la più gigantesca e micidiale di tutte le armi che il genere umano abbia mai annoverato nella sua millenaria esperienza di guerre e di distruzioni. E’ vero: si riparla anche ora di negoziati, di dialogo, della impossibilità che vi siano alternative alla pace, se la guerra è divenuta una soluzione così terribile da paragonarsi ad un suicidio per il genere umano. Ma anche essendo convinti di questa elementare verità, non possiamo non constatare che i limiti entro i quali si minaccia l’uso della forza — sia pure, vogliamo credere, con la determinazione di non impiegarla — sono arrivati all’estremo margine della logica, il quale è anche l’estremo margine del rischio; e che si è voluto deliberatamente adoperare questo strumento di pressione di una guerra «evitabile» ma «possibile» stabilendo, per suo mezzo, aree sempre più condizionate di negoziato. È indubbio infatti che le trattative su Berlino e su disarmo, così come potevano concepirsi due anni fa al tempo di Camp David, sono sensibilmente diverse da quelle che possiamo immaginare oggi, dopo la ripresa delle esplosioni nucleari sovietiche e dopo che si è rinnovata e accentuata la pressione sui settori occidentali di Berlino.
Ebbene, sul terreno politico e su quello morale, questo Congresso non può non manifestare protesta e disapprovazione per tutti gli atti politici che con la minaccia di apocalittiche distruzioni e con lo strumento del terrore sono stati volti ad ottenere unilaterali modificazioni dell’ordine costituito. La chiave di volta dei mutamenti intercorsi tra il tempo del Congresso di Firenze e il tempo del Congresso di Napoli va cercata, come tutti ormai riconoscono, nel clamoroso fallimento del «vertice» di Parigi, consumato nelle amare giornate di maggio del 1960.
In che modo si uscirà da questa situazione? Io credo sia soprattutto una prova di lunga pazienza e di costante fermezza, una prova di volontà, di forza morale non meno che di forza materiale, poiché anche questa è necessaria a mantenere determinati equilibri. Il negoziato è una soluzione logica, sia per alternative di cui abbiamo parlato, e che sono alternative reali; sia perché il negoziato è l’arma vera della politica, il punto d’arrivo civile di ogni società che voglia coscientemente salvare il mondo dagli orrori della guerra.
Bisogna dunque negoziare e ancora negoziare. Ma non vi sarebbe negoziato valido se non risultasse da una libera manifestazione di volontà: e se in esso non fossero equamente considerati gli opposti principi, gli opposti interessi, le vitali necessità dell’una e dell’altra parte. Non è realistico, e può essere estremamente pericoloso, pensare ad un arretramento del mondo comunista ottenuto con la forza, quali che siano le ragioni di libertà, di diritto, di moralità compromesse dalla sua avanzata. Ma sarebbe inammissibile, ed esso pure estremamente pericoloso, un arretramento del mondo occidentale. Si tratta di negoziare, per conservare e rendere più stabile, più umano, più accettabile l’equilibrio dei grandi interessi che si dividono il mondo.
La più autorevole e solenne delle voci, quella del Pontefice Giovanni XXIII, interpretò dall’altezza del Suo magistero e con la ricchezza delle Sue esperienze il punto vero della questione, quando invitò in un recente messaggio i reggitori del potere terreno a «trattative libere e giuste». Sono prospettive nelle quali noi crediamo e alle quali siamo pronti. Ma le due qualificazioni di libertà e di giustizia, sono per noi ineliminabili dallo strumento politico del negoziato. Sono le condizioni morali che possono rendere il negoziato, oltre che accettatile, utile ed opportuno.
La politica italiana in campo internazionale
Ci si può chiedere a questo punto quale sia la politica che in campo internazionale l’Italia può fare per contribuire a raggiungere simili obiettivi. lo credo, in primo luogo, che il nostro sia in questo momento un dovere di chiarezza. La fedeltà e la coerenza sono, anche nelle relazioni internazionali, basilari virtù: fedeltà alle proprie alleanze, che furono liberamente scelte dalla maggioranza popolare; coerenza ai principi che ci indussero a compiere quelle scelte, e che rimangono fermi capisaldi dei nostri orientamenti e della nostra azione. Noi crediamo che in un momento in cui gli oppositori dell’Occidente ostentano la forza per farne strumento di operazione politica, il primo e più necessario comportamento dell’Occidente sia quello di non disperdere la propria, di tenerla compatta ed efficiente. La linea atlantica della politica italiana non è mai venuta meno in oltre dieci anni di nostra fedele ed attiva partecipazione a questa preziosa alleanza, che ha validamente contribuito alla difficile conservazione della pace nel mondo. Certo non verrà meno ora, in un momento in cui forse stanno per sommarsi tutti gli sforzi compiuti, tutte le posizioni difese, tutte le integrità salvaguardate. E se diciamo — come abbiamo detto — che questa fedeltà deve essere una fedeltà intelligente, non cieca; una fedeltà ragionata e cosciente, non illogica; una fedeltà che comporta la rinunzia a dare il contributo della propria valutazione all’alleanza, ma anzi esige questo leale intervento; ci sembra di dire cosa che accresce, e in nessun modo e sotto nessun aspetto può attenuare la nostra determinazione di attivi e impegnati partecipanti ad un patto che riteniamo essenziale per la nostra libertà e per la pace del mondo.
L’obiettivo delle alleanze e di tutti gli atti della nostra politica internazionale è dunque la preservazione della pace e la creazione delle condizioni che la favoriscono ed in definitiva la rendono possibile. Tra queste condizioni c’è anche quella fermezza che scoraggia l’altrui prepotenza ed aggressione. Ma tra esse rientrano anche il realismo, la moderazione, il rifiuto ad ogni irresponsabile estremismo, l’esatta valutazione del modo di essere del mondo di oggi e degli immensi rischi del conflitto nucleare, l’interesse e la volontà di mantenere il contatto con il blocco dell’Est per cogliere ogni occasione che si offra di assicurare l’equilibrio del mondo e la pace.
In questo senso si può ben dire che per l’Italia, e non solo per l’Italia, la fedeltà all’alleanza difensiva dell’Occidente non preclude, ma anzi postula la distensione nei rapporti tra i blocchi per un mondo pacificato.
Desidero altresì confermare in questo momento la considerazione e la fervida adesione data dall’Italia alle Nazioni Unite le quali, pur con inevitabili deficienze, rappresentano il foro significativo della opinione pubblica mondiale ed il preludio ad un assetto organicamente ordinato e veramente pacifico del mondo.
Un altro dovere della politica italiana è quello di perseverare sulla strada, già così densa di risultati e oggi arricchita di nuove promesse, della unificazione europea. Vogliamo ribadire la nostra ferma convinzione che queste due linee costanti della politica italiana, dal tempo di De Gasperi senza soluzione di continuità fino ai nostri giorni, vale a dire la linea atlantica e la linea europeistica, sono state e sono entrambe validi contributi alla pace che il nostro Paese può fornire. Sono due linee insostituibili e necessarie, due linee di progresso democratico e di evoluzione nella libertà. Tra i fatti salienti dei due anni che intercorrono tra il Congresso di Firenze e il Congresso di Napoli vi è senza dubbio l’arricchimento costante delle azioni intraprese per rafforzare ed estendere il processo di unificazione europea. I Governi italiani succedutisi in questo periodo hanno operato con saggezza ed efficienza per conservare una dinamica forza di espansione ai risultati che via via si venivano raggiungendo e una elastica possibilità di manovra davanti agli ostacoli che una impresa così ardua complessa non poteva mancare di frapporre. Siamo lieti di poter annoverare tra i successi di questa azione la decisione britannica di rompere gli indugi e le perplessità che la trattenevano dal mettersi insieme a noi su di un cammino di sforzi comuni e di prospettive comuni. L’ultima volta che il Primo Ministro inglese Mac Millan fu ospite di Roma, nel dicembre del 1960, egli affermò che «quando si tengono vie separate nella difesa dei propri interessi economici, si finisce fatalmente per tenere vie separate nella difesa dei propri interessi politici». È questa chiara visione della realtà che ha portato l’Inghilterra alla sua scelta coraggiosa.
Decidendo di negoziare per entrare nel Mercato Comune, la Gran Bretagna sta per porre la parola fine alla sua lunga, secolare tradizione di splendido isolamento. Il processo di unificazione europea ha raggiunto, in questo rivoluzionario avvenimento, uno dei suoi traguardi più difficili e più necessari. Salutiamo la decisione britannica con amichevole compiacimento, con fervida speranza, come un sicuro auspicio dei successi che insieme — su questa strada — ci attendono.
Ma desidero anche sottolineare come una costante essa pure della nostra politica, che il profondo interessamento italiano alla comunità europea non attenua i vincoli di amicizia e di collaborazione con altri popoli particolarmente vicini per storia, civiltà, interessi comuni all’Italia, soprattutto nell’America latina e nel bacino del Mediterraneo.
Un altro settore al quale va il nostro sguardo con particolare interesse in questa rassegna della situazione mondiale è l’area delle nuove indipendenze, dei continenti in fase di sviluppo e dei popoli che stanno giungendo — talora felicemente, talora faticosamente e con turbate vicende — alla ribalta delle civili libertà. In questi due anni non meno di venti Paesi sono entrati a far parte della comunità delle Nazioni Unite: quasi tutti i Paesi africani, dato che l’Africa è stato l’ultimo continente ad uscire dagli schemi delle vecchie sovranità coloniali ed anzi non ne è ancora completamente uscito. E’ stato detto, appunto, che il decennio degli anni sessanta sarà il decennio dell’Africa. È una affermazione ricca di speranze e di opportunità, sottolineate in una parte del mondo che più delle altre era rimasta arretrata in confronto al ritmo della civiltà e della prosperità comune. Ma occorre subito aggiungere che se il decennio in cui ci siamo inoltrati dovrà lasciare il segno di una umanità più felice e più giusta, così come noi con cristiana coscienza dobbiamo volere e sperare, questa impresa deve valere per tutte le frontiere della miseria, della arretratezza, per tutti quei milioni di uomini sulla terra — centinaia di milioni — che non hanno la sicurezza del domani. Mi si permetta qui di ricordare la portata politica di questo dovere umano con le parole del Presidente degli Stati Uniti d’America, il cattolico e democratico John Kennedv: «A coloro che nelle capanne dei villaggi di metà del globo lottano per spezzare le catene della miseria — ha detto Kennedy il 20 gennaio del 1961, quando entrò un anno fa in possesso dei suoi poteri presidenziali — noi promettiamo di ricorrere a tutti i nostri sforzi per aiutarli ad aiutarsi, per tutto il tempo che sarà necessario, non perché lo fanno anche i comunisti, non perché ricerchiamo il loro voto o Ia loro simpatia, ma perché ciò è giusto. Se una forma di società libera non può aiutare i poveri, che sono numerosi, essa non potrà mai salvare i ricchi, che numerosi non sono».
Non ho bisogno di sottolineare a voi l’importanza, il vigore, il coraggio di una simile affermazione. Ma sento di poter dire, insieme con voi, che un uomo il quale sia capace di tali propositi, e intenda porli a caposaldo della sua azione politica, è degno di guidare il grande Paese alla cui testa è stato messo dalla libera scelta di una elezione popolare. Per gli anni di lotta e, abbiamo fiducia, di successo che egli ha davanti a sé, e che saranno anche — inscindibilmente — gli anni delle nostre lotte e dei nostri successi, mi sia consentito di rivolgere a John Kennedy dalla tribuna di questo Congresso il fervido augurio della Democrazia Cristiana d’Italia.
Il nostro Paese crede nei doveri della civiltà, per una tradizione e un costume operanti da secoli. A questi doveri ha dedicato nobilissime pagine di storia, e generoso sangue dei suoi figli. Io qui ricordo con animo commosso il barbaro eccidio dei tredici aviatori di Kindu, periti nel cuore dell’Africa sulla travagliatissima strada della pace. Ma dico anche che il loro sacrificio non deve farci dubitare né retrocedere sulla via che abbiamo iniziato e che riteniamo giusta. L’episodio di Kindu è un episodio di crudele violenza: ebbene noi non potremmo combattere la violenza altro che con la civiltà, noi non potremo combattere la barbarie altro che con la libertà, noi non potremo combattere l’odio altro che con una fede sicura e con opere attive per il progresso di tutti i popoli verso una vita più giusta. E il monito di Kindu valga per tutte le violenze da cui siamo circondati, per tutte le barbarie che ancora si compiono sulla terra, per tutti gli odi che ancora dividono gli uomini.
Le scelte di fondo della politica economica e sociale
Una ricerca della linea politica economica oggi più conveniente per il nostro Paese si trova subito di fronte al fatto veramente singolare che, sulla base spesso degli stessi elementi, si danno, di tale processo e dei suoi risultati, valutazioni del tutto opposte: da un lato si esalta l’intensità e la continuità del nostro progresso economico in termini che presuppongono la persuasione che ogni nostro problema potrà trovare col tempo soluzione pressoché automatica; dall’altro si rappresentano i nostri squilibri in termini talmente gravi da autorizzare un giudizio negativo sia sul processo che si è fin qui svolto sia sugli sviluppi che le posizioni raggiunte possono consentire.
Una riflessione anche breve sulle vicende ultime della nostra economia e sulla natura delle scelte possibili nella situazione che si è creata, è certamente sufficiente per mostrare la unilateralità dei due ordini di giudizi e la loro sterilità in sede di ricerca dell’indirizzo più conveniente, soprattutto una simile riflessione mi sembra utile perché essa può contribuire alla riaffermazione dell’unità del nostro Partito, in quanto dà a tutti noi una base comune nella valutazione di quanto abbiamo compiuto fino a oggi.
Orbene, se ci domandiamo quali sono stati i criteri ispiratori della nostra azione passata, noi possiamo affermare che due scelte di fondo vennero fatte nel nostro Paese a partire dall’immediato dopoguerra, con l’apporto determinante del pensiero politico-economico del nostro Partito.
La prima scelta di fondo è costituita dal proposito di ricostituire un’economia di mercato che superasse di colpo le inefficienze e i corrompimenti della politica autarchica e che, svolgendosi in modo deciso, non solo sul piano interno ma anche su quello internazionale, introducesse nella sfera pubblica come nella sfera privata uno stimolo incessante alla ricerca di un rendimento crescente del lavoro italiano e, nello stesso tempo, creasse automaticamente nel sistema economico nazionale una prima ed efficace componente antimonopolistica indubbiamente necessaria nel quadro lasciatoci dalle tristi vicende del passato. Le azioni fondamentali svolte negli anni scorsi nei vari settori della nostra politica economica ci appaiono oggi ordinate in gran parte a questa finalità: dalla politica monetaria e bancaria alla politica di bilancio, dalla politica fiscale alla politica degli scambi internazionali, al criterio, infine, secondo il quale le aziende del settore pubblico dovevano cimentarsi sul mercato in parità di condizioni con le aziende private.
L’altra scelta fondamentale fatta fin dall’inizio consiste nel proposito di individuare le situazioni di arretratezza economica e sociale, i punti di squilibrio che le forze di mercato non avrebbero potuto eliminare e di far luogo a istituzioni e a iniziative dirette a riportare queste situazioni al livello della restante economia nazionale: ecco quindi l’azione svolta nel Mezzogiorno con strumenti che, nel quindicennio post-bellico, non hanno fatto che affinarsi e potenziarsi, ecco l’azione degli enti di riforma e, in generale, l’insieme di misure prese nei riguardi del settore agricolo, ecco l’opera massiccia svolta dalla Cassa del Mezzogiorno, ecco l’azione svolta dai due grandi enti di gestione, IRI e ENI, che, uscendo dai vecchi schematismi delle nazionalizzazioni, vennero fin dall’inizio dichiarato il primo e concepito il secondo come istituzioni permanenti del nostro ordinamento. È appena necessario ricordare la diversità della concezione che ha presieduto alla strutturazione e alla azione di tutti gli enti sopra ricordati da quella che prevalse nel dopoguerra in altri Paesi del mondo occidentale, dove massicce e vistose nazionalizzazioni non hanno certo dato luogo né agli sviluppi operativi che si sono avuti presso di noi, né alla creazione di istituzioni che oggi ci appaiono più conformi alle esigenze di uno Stato moderno.
Quanto queste due scelte di fondo, ispirate a principi che potrebbero ritenersi contradditori, siano risultate essenziali per portare alla situazione odierna il nostro sistema economico devastato dalla catastrofe bellica e dalle precedenti politiche, lo dice la circostanza che oggi noi non riusciremmo ad immaginare il progresso fin qui compiuto in un sistema che da un lato avesse rifiutato quegli orientamenti di mercato che specie sul piano internazionale sono stati tanto aspramente contrastati e dall’altro non avesse dato vita a quelle istituzioni e a quegli interventi che pure vengono da altre correnti di pensiero continuamente avversati.
E, anticipando considerazioni cui lo svolgersi del discorso ci porterà più tardi, giova fin d’ora rilevare che se oggi noi possiamo da un lato guardare con fiducia a un avvenire in cui l’ulteriore progresso economico è subordinato al superamento di concorrenze internazionali ogni giorno più aspre e se dall’altro lato possiamo configurare interventi che siano veramente alla scala degli squilibri da superare, ciò si deve proprio al fatto che l’azione pubblica nel campo economico è riuscita coerentemente a svolgersi nel suo insieme su una difficile linea di equilibrio tra principi che in astratto si presentano come opposti, e la cui combinazione si è invece rivelata non solo come possibile, ma addirittura come generatrice di un moto di progresso rilevante, non discontinuo e comunque non concepibile nell’ambito esclusivo dell’una o dell’altra concezione.
Non vedo infatti come in una situazione di rottura di questo equilibrio si sarebbero potuti raggiungere risultati di tanto rilievo; e non vedo neppure come una simile rottura si sarebbe potuta evitare senza l’apporto delle forze che si esprimono nel nostro Partito.
I risultati dell’azione svolta
Quali sono, in sintesi, i risultati dell’azione svolta? Nel rispondere a questa domanda, noi possiamo ormai tenere conto anche dei risultati acquisiti a tutto il 1961, risultati che i nostri enti di ricerca, e alludo in particolare all’ISCO, hanno ormai messo a nostra disposizione.
Orbene, anche se noi escludiamo dalla nostra valutazione il quinquennio 1945-50, in cui la rapidità di ripresa è giustificata dalla necessità e dalla ovvietà dei programmi di ricostruzione, e consideriamo quindi soltanto l’undicesimo trascorso dopo il 1950, noi rileviamo un saggio di progresso globale che, senza suscitare obiezioni, può essere qualificato eccezionale non solo e non tanto in riferimento alla storia del nostro Paese, ma anche all’insieme di esperienze che ci offre il mondo contemporaneo.
Nel periodo considerato il saggio di aumento del reddito nazionale in moneta avente potere di acquisto costante è stato infatti del 6 per cento; in tale periodo si sono creati oltre tre milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro, dopo aver riassorbito la rilevantissima sottoccupazione che in molti settori ancora esisteva nel 1950; questo andamento ha permesso l’assorbimento nelle attività industriali e terziarie di tutto l’aumento naturale della forza di lavoro che si è avuto nel Paese e il trasferimento in tale attività di un milione di lavoratori prima addetti all’agricoltura.
Altri dati significativi sono i seguenti: i consumi privati sono aumentati a un tasso del 4 per cento annuo contro un tasso dello 0,5 per cento avutosi in tutto il periodo trascorso dall’unificazione italiana sino alla seconda guerra mondiale; gli investimenti in abitazioni sono aumentati a un saggio medio del 13 per cento annuo; i nostri conti con l’estero sono più che pareggiati e si è per di più costituita una ingentissima riserva d’oro e di valute pregiate.
Tutto ciò dà al nostro Paese una posizione di forza, di autonomia e di prestigio il cui significato va bene al di là del piano economico ed è comunque una espressione sintetica e decisiva del grado di capacità competitiva raggiunta dal lavoro italiano sul piano mondiale.
L’eliminazione degli squilibri presenti nella vita italiana
Il progresso economico della nostra società ovviamente non si misura solo in termini globali; un giudizio compiuto richiede anche una considerazione del modo con cui si ripartono i frutti del progresso e più precisamente della misura in cui gli squilibri esistenti nella società italiana vanno correggendosi.
È pur vero che un intenso progresso globale e l’aumento di occupazione e del generale livello dei consumi che esso determina sono in sé fattori di riequilibramento, come ognuno può facilmente constatare senza far ricorso a elaborazioni statistiche, in base alla sola propria esperienza personale.
Rilevanti però sono gli squilibri che tuttora permangono ed è su di essi che mi preme intrattenervi.
Al riguardo non vi è dubbio che i traguardi oggi raggiunti in fatto di produzione, la solidità assunta dal nostro sistema economico, le prospettive di ulteriori progressi che ad esso si dischiudono, tutto ciò non solo consente ma anche esige che alla eliminazione degli squilibri ci si dedichi con maggior copia di mezzi e soprattutto con rinnovato impegno.
Premesso tutto ciò, sono certo che noi tutti concordiamo nel pensiero che lo squilibrio fondamentale della società italiana è pur sempre rappresentato dal fatto che una parte della nostra forza di lavoro non è occupata a livelli moderni di produttività.
Questo fondamentale problema nostro si presenta però oggi in una luce del tutto nuova; effetto anche questo del rilevante progresso economico avutosi negli ultimi ami e in particolare della dilatazione, a livello possiamo ben dire mondiale, che è avvenuta nel nostro sistema produttivo. Nell’Italia povera di capitali che fino ad epoca recentissima eravamo soliti rappresentarci, la piena occupazione era una eventualità desiderabile ma non suscettibile di essere definita in un obiettivo preciso da perseguirsi direttamente; e ciò in quanto l’attuazione di uno stato di piena occupazione dipendeva da elementi in misura preponderante sfuggenti al controllo dell’azione politica; la degenerazione autarchica può del resto giudicarsi proprio l’effetto di un’azione ispirata alla pretesa di dominare tutti gli elementi esterni condizionanti un simile processo. Il fatto stesso che lo schema Vanoni si ponesse come obiettivo diretto la creazione di un numero determinato di posti di lavoro, e più precisamente quattro milioni, e non l’obiettivo della piena occupazione è indice eloquente del progresso che in breve giro di anni è stato compiuto in questa materia.
Dalle posizioni che abbiamo ormai raggiunte per effetto della politica ispirata ai criteri detti in principio, la piena occupazione può invece presentarsi finalmente, come obiettivo collocabile nel tempo con sufficiente approssimazione, come sbocco di uno svolgimento logico di un sistema di forze già in atto.
Ne è prova il fatto che il nostro dibattito verte oggi non più sulla ragionevolezza di quell’obiettivo ma sulle modalità con cui il processo di pieno impiego si viene svolgendo. La considerazione del fatto che la nostra forza di lavoro è inadeguatamente utilizzata ci pone subito di fronte ai problemi dell’agricoltura; e la trattazione di questo problema ci consente anche di mettere in luce la massima componente del problema del Mezzogiorno.
Il Mezzogiorno
Una considerazione attenta dei problemi della nostra agricoltura è d’importanza pregiudiziale per una valutazione dei termini attuali del problema del Mezzogiorno. Lo scarto tra produttività del lavoro industriale e produttività del lavoro agricolo tende ad accrescersi ulteriormente per una circostanza che sfugge interamente al nostro controllo essendo essa costituita dal tipo delle tecniche che il mondo contemporaneo sta acquisendo. A motivo di tale fenomeno l’equilibrio economico sociale del Mezzogiorno esige oggi un livello di produttività in agricoltura molto più alto di quello da tutti previsto ancora pochi anni fa; e in conseguenza l’esodo dall’agricoltura sarà corrispondentemente maggiore.
Il secondo fatto di enorme rilevanza è l’effetto prodotto sulla disponibilità meridionale di mano d’opera dall’intensità con cui procede lo sviluppo industriale italiano e in generale lo sviluppo di tutto il mondo occidentale: la maggior domanda di forze di lavoro che questo fenomeno determina fa oggi profilare la possibilità che il pieno utilizzo delle forze di lavoro meridionali possa aver luogo come effetto di un esodo massiccio delle forze di lavoro disponibili nella regione. Un esodo di tali proporzioni, se può soddisfare la legittima aspirazione del singolo lavoratore ed essere inserito in un sistema produttivo moderno, lascerebbe pur sempre il Mezzogiorno con una struttura produttiva e quindi anche sociale non soltanto squilibrata ma neppure più correggibile; in conclusione, se da un lato l’esodo necessario all’equilibrio è maggiore di quello fin qui previsto, dall’altro lato questo esodo potrebbe avere luogo in forme non compatibili con le linee di sviluppo che, nell’interesse della regione e del Paese tutto, abbiamo fissato. Da qui la necessità di un ulteriore intensificazione del processo di industrializzazione ora in corso, nel Mezzogiorno.
Quanto alle politiche da adottare a tale fine non c’è dubbio che noi possiamo molto chiedere all’industria a partecipazione statale proprio in virtù della struttura del tutto moderna che il settore ha tipicamente assunto nel nostro Paese. La circostanza che IRI e ENI, pur sorti in circostanze storicamente diverse, si siano andati espandendo ed affermando in direzioni molteplici secondo la formula modernissima del gruppo integrato, ci consente infatti oggi di affidare ai due enti un compito che, pur restando sempre sul piano delle aziende di maggiori dimensioni, non trova preclusioni di ordine per così dire settoriale. E ci sia consentito di osservare al riguardo, nella presente delicata fase di ripensamento delle strutture delle nostre istituzioni e di confronto tra le ideologie che presiedono alla loro elaborazione, che una simile possibilità d’azione non ci sarebbe consentita se, come da qualche parte si chiedeva, ci fossimo messi sulla strada delle nazionalizzazioni di settore o — il che fa lo stesso — di una strutturazione per settori della politica di intervento. Come potremmo chiedere alle aziende nazionalizzate del tipo Azienda Ferroviaria o Amministrazione delle Poste e Telegrafi o a Enti di gestione specializzati anche di grandi dimensioni di concepire Interventi nei settori che non sono loro propri? Lo straordinario arricchimento che l’azione dello Stato riceve per effetto del ricorso agli Enti di gestione di grandi dimensioni operanti in campi molteplici è particolarmente prezioso nel tipo di azione che si richiede allo Stato in una zona non industrializzata come è il Mezzogiorno; non a caso del resto l’istituto della nazionalizzazione è fiorito nei Paesi in cui un’attività di promozione di nuove industrie non era richiesta, oppure nei Paesi in cui tale azione pur necessaria non era contemplata dalle forze al potere, come avvenne in passato da noi.
E non credo sia azzardato dire che in presenza dell’intenso progresso che ha luogo nelle regioni settentrionali e della loro crescente integrazione nel sistema industriale europeo le risorse addizionali e le energie dei nostri enti di gestione debbono sempre più essere indirizzate a favore delle regioni meridionali.
Le regioni meridionali potrebbero così disporre di centri produttivi di grandi dimensioni operanti in campi molteplici e quindi dotati di vasti quadri tecnici facilmente mobilizzabili nelle direzioni non prevedibili che il progresso tecnico continuamente dischiude.
Né minore sarebbe il contributo che simili strutture differenziate porterebbero alla soluzione del problema della formazione professionale delle forze di lavoro meridionali. E’ noto quanto la formazione professionale dipende dall’esistenza di nuclei industriali capaci di fornire i quadri insegnanti delle istituzioni extra scolastiche. Ma se l’industria non esiste ancora, dove le regioni sottosviluppate potranno trovare questi quadri insegnanti? Ecco quindi un altro campo vitale d’interventi per un’industria statale organizzata come nel nostro Paese su basi integrate.
Così delineato il ruolo che l’industria a partecipazione statale dovrà assumere in una rinnovata visione della politica di industrializzazione del Mezzogiorno, occorre subito aggiungere che noi non potremmo accettare il pensiero che un simile allargamento della iniziativa pubblica potrebbe coprire il vuoto eventualmente lasciato da una iniziativa privata che fosse riluttante ad impegnarsi anche nelle regioni meridionali. Una simile concezione che talvolta affiora negli ambienti più vari deve giudicarsi la più catastrofica tra le molte che in un secoli di vita unitaria hanno colpito il Mezzogiorno.
La politica di sviluppo
Altro criterio informatore della nostra politica economica ritengo debba essere quello che l’eliminazione degli squilibri non deve concepirsi come un’azione correttrice di quanto già è avvenuto, ma come una componente della politica di sviluppo. Noi possiamo legittimamente porre al centro della nostra politica una simile concezione per un triplice ordine di motivi:
— perchè noi possediamo più che in passato strumenti sufficienti per conoscere, prevedere e orientare la realtà economica e sociale;
— perchè nel quadro tecnico contemporaneo hanno luogo mutamenti tanto rapidi e tanto profondi da rendere tardiva e inadeguata ogni azione equilibratrice concepita come una correzione fatta a posteriori e non come una componente di uno sviluppo pensato in funzione di determinati valori di giustizia e di libertà;
— perché il livello di reddito raggiunto dal nostro Paese, l’accumulo di ricchezza e di conoscenze tecniche che si è già effettuato permettendo di dotare la componente sociale del processo di sviluppo di mezzi molto maggiori che in passato.
Ho osservato in principio che l’impostazione data in passato alla nostra politica economica non solo ha creato le condizioni necessarie perché avesse luogo il grande progresso degli ultimi anni, ma ha posto anche le premesse sia sul piano interno, sia su quello internazionale, per l’ulteriore continuazione di un simile progresso.
Questa confortante constatazione non deve però farci ritenere che la continuità di progresso sia qualcosa di automatico prodotto dal meccanismo di mercato; al contrario responsabilità nuove sono sorte per la nostra politica economica dal profondo e crescente inserimento dell’economia italiana nell’economia mondiale. Se da un lato questo fatto di portata veramente storica è garanzia di efficienza all’interno e di maggior forza nei riguardi dell’esterno, dall’altro lato la nuova situazione esige che il nostro sistema produttivo si mantenga in linea con i sistemi più avanzati al cui livello si è ora portato e nello stesso tempo ci espone più che per il passato a contraccolpi di vicende esterne che sfuggono al nostro controllo. La nostra politica futura dovrà quindi dare luogo a tutte le iniziative capaci di rendere rilevante e continuo il moto di progresso e dovrà, nello stesso tempo, essere pronta a evitare che le fluttuazioni della economia internazionale abbiano riflessi depressivi sulla nostra situazione economica interna; effetti che sopportabili da economie mature, si risolverebbero invece in gravi turbamenti in una economia come la nostra, dove l’accumulazione di capitale è ancora insufficiente.
Importanza crescente è destinata ad assumere in questo quadro la politica nei riguardi dei Paesi in via di sviluppo; l’Italia che ancora pochi anni fa era, in quanto Paese povero di capitali, prenditrice di capitali sul mercato internazionale, si è rapidamente trasformata in Paese prestatore. Noi siamo certamente chiamati ad intensificare l’azione di assistenza verso quei Paesi, e non dobbiamo rifiutare una tale assistenza proprio a motivo del valore particolare del contributo che il nostro Paese può portare a quel processo di decolonizzazione che il mondo contemporaneo deve rapidamente condurre a termine se vuole creare una premessa essenziale ad una stabile organizzazione della convivenza mondiale; e quando parlo di contributo italiano a un simile processo penso non tanto all’aspetto finanziario, quanto a quello tecnico e più in generale culturale, umano. E’ un fatto che le nostre istituzioni, i criteri della nostra politica suscitano un interesse crescente, checché ne dicano i detrattori sistematici di ogni nostra azione, presso i Paesi in via di sviluppo; deve essere nostro proposito quello di rendere sempre più accessibile ai quadri direttivi di quei Paesi la nostra esperienza i modi di sviluppo di una società libera in via di rapida trasformazione.
Caratteri di una politica economica ispirata agli ideali della D.C.
Non ci siamo ora qui riuniti per definire un programma organico di Governo: il nostro compito è quello di renderci conto del meccanismo economico e sociale operante in Italia e delle direttive da darsi ad un’azione economica capace di contribuire a realizzare valori che ispirano il nostro pensiero.
A questo fine è certamente più utile soffermarsi più a lungo su problemi di particolare significato per l’identificazione dei criteri della nostra azione futura, che non preoccuparsi di compilare un quadro sistematico dei problemi economici e sociali che oggi presenta la società italiana; non pochi sono quindi i problemi su cui non mi è dato soffermarmi in questa sede, ma che pure hanno costruito oggetto di nostri studi accurati e su cui mi auguro possa al più presto avviarsi un’azione di Governo: basti ricordare tra questi la riforma delle società per azioni il cui attuale ordinamento non riflette certo il ruolo che questo istituto svolge nell’economia contemporanea, la regolazione delle posizioni monopolistiche nel nuovo quadro in cui il problema è stato posto dall’instaurazione del Mercato Comune, lo sviluppo dei vari ordini di attività assistenziali e delle complesse attrezzature che esse richiedono.
E’ però mia opinione che le considerazione pur brevi svolte intorno ai problemi toccati sono ormai sufficienti per dare un quadro compiuto del sistema di pensiero che ci guida e dell’applicazione che ci proponiamo di farne nella fase attuale della vita italiana.
Punto di partenza del nostro discorso è che oggi, rafforzate le basi del nostro sistema economico, occorra, con una visione sotto molti riguardi nuova dei compiti dello stato, dare opera affinché, garantite le condizioni dell’ulteriore sviluppo, si ottenga che questo si svolga in modo da portare rapidamente all’eliminazione degli squilibri esistenti nella vita italiana. Caduti gli insuperabili ostacoli di fatto che fino ad epoca recente impedivano di fissare in modo rigoroso un simile obiettivo unificante della società italiana, noi oggi possiamo chiedere allo Stato di assumere anche una simile responsabilità. Che cosa significa proporre una simile direttiva? L’argomento è stato ampiamente discusso nel fecondo dibattito svoltosi nel settembre scorso a S. Pellegrino. Io non riproporrò qui i termini di un problema sulla cui soluzione vi fu senza dubbio, in quella occasione, una amplissima concordanza di opinioni; solo vorrei portare a questa concordanza, raggiunta in sede di studio, sul piano dei principi, un ulteriore appoggio sul piano dei fatti, deducendolo dal tipo di iniziative che oggi si impongono nei vari settori se si vuole che dette iniziative siano alla scala dei problemi da risolvere.
La politica di piano
Ora, le politiche di cui sono andato delineando i termini essenziali sono in genere caratterizzate dal fatto di:
a) essere strettamente collegate tra loro in quanto sono destinate a creare condizioni complementari la cui presenza simultanea è necessaria per la realizzazione di quell’ordine economico e sociale al quale noi tendiamo;
b) richiedere metodi nuovi nell’azione che lo Stato svolge nel campo economico e sociale;
c) comportare una disponibilità rilevante di mezzi finanziari.
E pertanto l’obiettivo generale di uno sviluppo economico equilibrante esige una serie di azioni di vasta portata che si svolgono in campi diversi della vita nazionale e ad opera di una molteplicità di istituzioni di carattere nazionale e di carattere locale: tutte queste azioni non potrebbero dare il risultato che ci si attende se non fossero tra loro strettamente coordinate, in altri termini, se non si provvedesse a determinare in modo congiunto gli obiettivi parziali di ciascuna di esse, gli strumenti da impiegare, i criteri con cui detti strumenti saranno impiegati ed infine i metodi con cui raccogliere i mezzi finanziari occorrenti. Tutto ciò ha trovato sintetica espressione a S. Pellegrino, sulla base della relazione del prof. Saraceno, nell’espressione «politica di piano»; altri chiama ciò «programmazione»: termini che stanno a significare la duplice esigenza di coordinare strettamente le varie attività che si intende avviare, e di adeguare le singole istituzioni e il volume di mezzi di cui sono dotate agli obiettivi parziali che le istituzioni devono conseguire.
Se concordiamo sui fini da raggiungere noi dovremmo anche concordare sul fatto che questa linea rappresenta, nella fase attuale della vita italiana, una evoluzione logica e necessaria; non possiamo infatti affermare che intendiamo eliminare gli squilibri oggi esistenti, senza renderci conto nello stesso tempo del tipo di responsabilità che l’azione pubblica viene con ciò ad assumere, dei mezzi di cui quest’azione deve essere dotata ed infine delle forze che possono sostenere l’azione stessa.
Si è soliti osservare, a quest’ultimo riguardo, che una società non può, nel sistema di rapporti esistente, dar luogo in modo autonomo ai processi di innovamento che noi propugniamo, e ciò perché ogni processo evolutivo è rallentato, deformato e alfine arrestato dalle forze che quel processo non hanno interesse a consentire; certamente se all’interno della società è possibile la libera manifestazione delle forze sociali che la compongono, un simile rischio non può essere eliminato; noi ne siamo ben consapevoli. Siamo però convinti che nel clima di libertà vigente nel nostro Paese le forze più dinamiche, che meglio sanno esprimere in una data situazione storica i fini della società, avranno sempre modo di raggrupparsi e di far prevalere gli svolgimenti più conformi a quei fini.
La D.C. e gli altri partiti: la lotta al comunismo
Dopo il discorso sul programma viene, in modo del tutto coerente, quello sulle forze politiche, anche se siano tali che se ne debba riconoscere la incompatibilità con noi e l’impossibilità conseguente di collaborazione. Sotto questo profilo vengono in evidenza le fondamentali preclusioni della D.C. nei confronti delle forze totalitarie di sinistra e di destra, del P.C.I. e del M.S.I.
Tra esse viene per primo in considerazione, per la temibile consistenza del suo seguito popolare, per la serietà della sua ideologia, per la forza emotiva dei suoi principi e programmi, per la solidarietà internazionale che lo presidia e lo rafforza, per la pressione efficace che riesce ad esercitare sulla vita democratica del Paese, il P.C.I., in atto la più potente delle forze contro le quali urti la D.C. nell’assolvere il suo compito di garanzia democratica e di difesa della libertà in Italia, il grande avversario della D.C. La contrapposizione D.C.-comunismo resta senza mutamento alcuno, né di significato né di intensità, sin da quando è intervenuta con De Gasperi la prima seria chiarificazione nell’Italia democratica del dopoguerra, il dato fondamentale della realtà politica italiana.
E’ una radicale diversità di programmi ed ideali, che non è in nulla intaccata dalla natura popolare dei due partiti. La D.C. ha come meta suprema della vita sociale l’uomo che è principio, fine e strumento della pur essenziale solidarietà sociale, mentre il comunismo altera la gerarchia dei valori, mortifica l’uomo, dissolve sostanzialmente la persona in una macchina collettiva nella quale l’uguaglianza non è riconoscimento di eguale dignità, ma comporta la rinuncia al valore autonomo della persona. La dignità della persona per la D.C. richiede la libertà in tutte le sue forme e tra esse essenziale quella politica; il valore dell’uomo invece per il comunismo si esprime e si esaurisce in un inserimento mortificante ed uniforme nella vita collettiva. Per una leale dignità da garantire la D.C. non fa pagare nessun prezzo in linea di principio in termini di libertà; per una illusoria, il comunismo fa pagare invece il prezzo ed, in talune circostanze storiche, un prezzo sanguinoso, della rinuncia alla libertà umana. Contrapposte sono dunque le ideologie, i criteri morali, le intuizioni sull’economia e la evoluzione della vita sociale. Contrapposte sono le visioni di politica estera, ancorata quest’ultima per la D.C. all’autonomia e libera valutazione degli interessi nazionali ed alla loro naturale e non forzata connessione con quelli di altri popoli; pregiudizialmente vincolata quella comunista, in forza di una dominante solidarietà classista, alle posizioni dell’Unione Sovietica come Stato tutore degli interessi proletari in tutto il mondo. Ma soprattutto ci divide dal Partito Comunista il fatto che esso rifiuti la legge democratica del delinearsi delle maggioranze e delle minoranze, dei loro inalienabili diritti, del loro alternarsi al potere, della libertà di movimento del corpo sociale, del potere di scelta politica del cittadino, della riversibilità di ogni decisione, dell’affidamento della stabilità delle conquiste sociali e dei progressi civili e politici non ad una impossibilità di mutamento, offensiva e cristallizzatrice, ma ad una sempre rinnovata valutazione positiva e libera scelta del corpo sociale.
Sulla base dell’accettazione di un metodo permanentemente valido di libera discussione, nella garanzia comune di un’assoluta lealtà di rapporti si svolge il gioco democratico. Ma il comunismo non accetta il gioco democratico. C’è per esso un punto di arrivo, in termini di rigida eguaglianza e di disciplinato inserimento dell’uomo nella società, che per il suo dominante valore consente l’adozione di qualunque mezzo valga per giungervi, sicché la via democratica e parlamentare è solo uno strumento tra altri giustificato dalla opportunità. Dopo questo nessuna correzione è possibile e nessun ritorno. E’, come si è detto, la rivoluzione che è più grande e importante della verità e della libertà o che s’identifica pregiudizialmente con esse. E’ una irrimediabile vocazione totalitaria, quale che sia l’interesse umano invocato, e talvolta con accenti di sincerità e di passione e con notevole spirito di sacrificio, per giustificarla. Su questo punto, su questa finalità ultima, su questa sorta di diritto naturale sempre rivendicato dai comunisti alla violenza ed all’oppressione per raggiungere il proprio fine di giusto ordinamento sociale, esso stesso del resto oppressivo e soffocante, non vi è stata, non vi è, non vi sarà mai, perché non vi può esservi nell’ambito del sistema, alcuna rinuncia, riserva, attenuazione. Vi può essere un adattamento tattico, vi può essere l’utilizzazione anche vivace ed appassionata di modi di vita democratica, ma non il riconoscimento che i diritti dell’uomo, la libertà e la verità facciano da limite insuperabile, perché indisponibile, all’affermarsi della rivoluzione egualitaria del comunismo. Questa è per definizione la rivoluzione democratica e socialista che è la ragion d’essere ineliminabile del Partito Comunista Italiano.
L’on. Togliatti chiede sì, nella relazione dell’ultimo Congresso del suo partito, che si cerchi in Italia il modo di una reciproca comprensione «attraverso la quale vengano trovate forme nuove, originali e nostre, di realizzazione di quel progresso economico e sociale di cui il popolo italiano ha bisogno e cui aspira» (e da qui la presenza e l’attiva partecipazione dei comunisti a tutte le esperienze politiche della vita nazionale), ma senza che vi sia mai la rinuncia agli obiettivi più lontani e più propri del P.C.I. Il rapporto che passa, è ancora Togliatti che parla, tra le misure di riforma politica e strutturale che noi proponiamo ed i nostri obiettivi più lontani è lo stesso rapporto che si stabilisce nel mondo moderno tra la democrazia e socialismo… Nazionalizzazioni, interventi dello Stato, estensione delle autonomie politiche, maggiore benessere per i lavoratori, se non cambiano ancora la natura del regime e della società, cambiano però qualche cosa «e possono cambiare molto del mondo come si sviluppa la lotta delle masse lavoratrici per conquistarsi un nuovo livello di benessere ed una nuova dignità… Però la natura dell’ordinamento cambierà radicalmente solo quando saremo riusciti a cambiare le classi dirigenti della società e dello Stato».
E nella replica che conclude lo stesso Congresso, l’onorevole Togliatti precisa, a proposito del quesito se le proposte comuniste siano da definire in senso riformistico o rivoluzionario, che «il punto sul quale, oggi, noi comunisti italiani poniamo l’accento, è che il rapporto tra riforme e rivoluzione non è sempre stato il medesimo in tutti i periodi di sviluppo del capitalismo e in tutte le fasi della lotta politica. Nella fase in cui si è aperta una crisi rivoluzionaria, per arrivare alla trasformazione dello Stato, bisogna abbatterlo; nelle fasi di sviluppo e di evoluzione, la riforma può avere modi e contenuti diversi secondo le necessità esistenti e il grado di sviluppo della società». Così la scelta tra rivoluzione e riforma è lasciata più alle cose che agli uomini, mentre manca nella intuizione comunista del mondo una ragione morale, poiché il solo criterio è la validità della rivoluzione violenta e sovvertitrice.
Questa irriducibile ambiguità, questa politica del doppio binario, questo mescolarsi di obiettivi immediati e di altri remoti, questa insicurezza, a dir poco, circa il punto ed il momento, i quali pur giungeranno fatalmente, nei quali la convergenza temporanea diventerà divergenza in vista della attuazione immancabile dei fini ultimi della rivoluzione comunista, non può non incidere in modo decisivo su ogni prospettiva di collaborazione democratica con questo partito. Direi che al di là della stessa volontà delle persone, per una ragione obiettiva, per una fatalità storica, tutto è insincero, incredibile, insuscettibile di creare vere e costruttive solidarietà nella azione politica del comunismo: così le promesse ai diversi ceti sociali, la delineazione di larghe maggioranze popolari per azioni rivendicative, la richiesta di comuni posizioni distensive in politica estera, la creazione di piattaforme destinate, attraverso una deformazione delle autentiche posizioni ideali non comunisti, ma in definitiva ritenuti utili per le finalità remote del comunismo, la cauta ed abile utilizzazione di correnti di opposizione che non hanno nulla a che fare col comunismo, ma che ad esso fanno riferimento come ad una potente forza in contrasto con quella che esercita il potere. E’ ben difficile immaginare una qualsiasi forma di collaborazione con i comunisti, che non sia almeno in potenza, e con attitudine a tradursi in ogni momento in atto, una minaccia per l’integrità del sistema democratico, per la normalità della vita politica, per la stessa esistenza e il prestigio delle forze politiche le quali abbiano incautamente accettato di entrare nel gioco comunista.
E neppure l’autocritica alla quale hanno dato il via i risultati del XXII Congresso del PCUS, a parte non irrilevanti riflessi psicologici e politici, ha determinato e, noi sappiamo, può determinare il superamento di questa ambiguità, una rettifica in senso veramente democratico che porterebbe il comunismo fuori del sistema. E così Togliatti respinge la richiesta di modifiche istituzionali e conferma che le istituzioni sovietiche sono il risultato di un lungo processo storico che non può essere rifatto a ritroso: «È assurdo contrapporre alle istituzioni sovietiche le istituzioni dello Stato democratico borghese e credere che a questo si possa e si debba far ritorno. La garanzia vera non sta tanto nelle forme istituzionali, quanto nella volontà democratica delle masse popolari». E nel documento steso per orientare il dibattito di base sui risultati del Congresso del PCUS si conferma che gli errori e le deformazioni, per quanto gravi, non hanno compromesso e intaccato le basi e la sostanza profondamente democratica della società socialista. La democrazia socialista, si aggiunge, per le sue forme, per il suo contenuto e i suoi obiettivi si differenzia profondamente dalla democrazia borghese. È il rifiuto, del resto inevitabile, a dar rilievo ai problemi di libertà, di rispetto dell’uomo, di controllo politico, di vera democrazia, in una parola, che sono ancora una volta drammaticamente affiorati nelle rivelazioni e decisioni del XXII Congresso del PCUS e che sussistono intatti, contro ogni ottimismo minimizzatore, finché appunto non si metta in discussione il sistema.
Non si può prendersela con l’avversario di classe e denunciare l’ennesima campagna anticomunista ed antisovietica; non vale nemmeno rilevare, come un alibi, che la democrazia socialista è quella, come si dice, borghese. Non si tratta di diversità di forme e di contenuto, che nell’evoluzione sociale è ammissibile e comprensibile; si tratta di vedere se in forme nuove ed in un contenuto diverso e magari più ricco, siano salvaguardate esigenze permanenti, siano presenti istituti nei quali si esprime in modo netto e sicuro la libertà e dignità umana nella vita sociale e politica. Non è colpa nostra se vicende come queste offrono lo spunto ad una polemica anticomunista che non ha bisogno di forzare artificialmente i toni, per essere giustamente severa ed ammonitrice. Sicché a ragione, nel mio ultimo discorso di Bari, potevo rilevare come «a qualificare il comunismo nel suo reale significato in ordine ai valori umani… c’è la polemica sulle vicende del regime comunista nell’Unione Sovietica, c’è la scoperta della massiccia e continua violazione della legalità, c’è la confessione della serie di delitti e di stragi della quale è intessuta la lotta per la conquista e la conservazione personale del potere… Non sono in discussione (notavo ancora) in questa drammatica denuncia, in questo esame di coscienza, gli atti di violenza contro i nemici di classe, contro coloro che non ha piegato la dialettica democratica, ma la cieca furia distruggitrice della rivoluzione… È nel suo seno stesso che la rivoluzione riscontra in ritardo i tragici effetti della esasperata lotta per il potere, il peso insopportabile del chiuso regime personale, la fatale ingiustizia, la inevitabile offesa alla libertà che un regime dittatoriale porta fatalmente con sé. Gli errori attribuiti al culto della personalità, quasi si trattasse di una deviazione od esasperazione del sistema, sono il portato fatale dell’accentramento del potere, dell’impedito dibattito delle opinioni, del mancato controllo dal basso, della unicità del partito, del rifiuto in ogni istanza del vero gioco democratico. È un’impresa disperata… nell’atto in cui c’è un’ammissione, del resto alla lunga inevitabile, della drammatica realtà dell’attuazione della ideologia comunista, persuadere che si tratta di errori e colpe di uomini che lasciano immune dalla critica il sistema. È un’impresa disperata, trattare queste vicende, che del resto occupano un così lungo spazio dell’esperienza sovietica, quasi si trattasse di fatti marginali e contraddittori che coprono il vero volto del comunismo».
Questa è la ragione, che ha oggi ancora più solido fondamento, della nostra incompatibilità, che è propria del resto di tutti i partiti democratici, con il comunismo. L’anticomunismo non è per noi, e non è per larga parte dell’opinione pubblica italiana, una posizione assunta senza serie giustificazioni, con una decisione pregiudiziale insensibile ad ogni onesta valutazione, una copertura di comodo a posizioni d’interesse. È la conseguenza inevitabile della identificazione del vero volto del comunismo. L’anticomunismo della D.C. non è più come ho avuto già occasione di sottolineare, un anticomunismo di tipo conservatore né sul terreno sociale né sul terreno politico. È un anticomunismo che vuol dare alla giustizia sociale, alla rottura del fronte dei privilegi, al processo d’immissione dei ceti popolari nella società e nello Stato il respiro della libertà, lo strumento efficace di un’autentica esaltazione della dignità umana. È un anticomunismo che sul piano politico, per quanto parta da una chiara visione della realtà vera del comunismo, della sua irresistibile spinta di fondo verso un sistema che irrigidisce la vita sociale e soffoca la libertà in tutte le sue forme, non intende trasformarsi in regime né combattere la battaglia per la libertà con mezzi che non siano quelli della libertà.
Per i nostri principi, i quali chiedono una coerente applicazione, ma anche per rendere la nostra opposizione al comunismo persuasiva, efficace, educativa, un contributo positivo alla contrastata affermazione del sistema democratico, la nostra posizione anticomunista dev’essere immune da ogni compiacenza o anche da ogni sospetto di compiacenza verso il fascismo e tutto quello che lo renda possibile e lo prepari. È necessaria perciò in una seria ed efficace posizione anticomunista una spinta decisa verso un’espansione democratica in tutte le direzioni ed a tutti i livelli, un lavoro di lunga lena, il quale non dà risultati immediati e vistosi (i quali sarebbero per ciò stesso senza radici) ma incide lentamente nelle coscienze, valorizza durevolmente determinati fattori morali, religiosi e di costume, intacca una ingiusta e disordinata realtà sociale sulla quale facilmente si impianta la protesta disperata, disordinata ed eversiva. Né si deve trascurare in questa giusta rivendicazione del solo modo serio di combattere il comunismo il fatto che esso, nella continua mescolanza di obiettivi remoti, che lo allontanano o dovrebbero allontanarlo dagli altri partiti, ed obiettivi immediati, che consentono un facile inserimento del comunismo nella vita sociale e politica, mette in moto energie operanti nella vita democratica, affronta problemi, eccita uomini e gruppi, indica traguardi immediati che appaiono accettabili in talune circostanze anche fuori della vera osservanza comunista, in una parola, pur con finalità tattiche e menzognere, opera una mobilitazione democratica che non può non lasciare una traccia nella vita sociale ed alla quale si risponde efficacemente solo con un’autentica mobilitazione democratica con fini di verità e libertà e senza alcuna riserva. Ci sia consentito perciò, proprio mentre riconfermiamo l’anticomunismo della D.C., di essere scettici sulla validità delle critiche le quali vengono rivolte con mentalità ancora chiusa e torpida a questo modo di vedere i problemi sociali del nostro tempo e le esigenze di difesa democratica come si manifestano in una società moderna. Non siamo, così, affatto persuasi dell’efficacia dei metodi, non meglio precisati del resto, di resistenza attiva, salvo s’intende la rigorosa applicazione della legge, una severa azione amministrativa che non consenta privilegi per nessuno, una continua reazione morale e politica. Un anticomunismo consapevole e fondato su basi democratiche, quel è quello che noi pratichiamo, non può che postulare l’isolamento dei comunisti, non può che volere che sia evitata ogni confusione ed ogni occasione d’inserimento, di collegamento e di equivoco nei confronti del P.C.I.
Si comprende bene quindi come i comunisti vogliano evitare l’isolamento e vogliono esperienze frontiste. Ed invece questa dell’isolamento resta per i democratici, resta per la D.C. una direttiva fondamentale di azione politica. Nessuna confusione, nessun collegamento né visibile né invisibile, nessuna collaborazione con il Partito Comunista. Questo è un primo dato della realtà politica italiana.
La minaccia totalitaria di destra
Come c’è un limite a sinistra, in relazione alla difesa contro la pressione totalitaria, così ve n’è uno a destra. La lotta su due fronti, l’individuazione di una minaccia totalitaria anche sulla destra dello schieramento politico non sono una novità, ma una costante nell’azione politica della D.C. da De Gasperi in poi, un elemento caratterizzante da sempre della sua fisionomia di Partito. E non si dica che questa esigenza è stata in passato sottovalutata e negletta per una realistica valutazione della situazione politica, in forza della capacità, che altri avevano nella D.C. ed oggi è perduta, di dare alle cose le loro esatte proporzioni. Si può certo riconoscere che la disfatta del fascismo fu tanto grave e, almeno in apparenza, così definitiva che per qualche tempo parve impossibile immaginare questo come un pericolo attuale e la pregiudiziale antifascista si presentò più che come un dato della realtà politica, come uno stato d’animo, il consapevole ripudio di un passato doloroso ed avvilente che contribuiva a tracciare i lineamenti ideali della D.C. Bisognerà aggiungere pure che il riemergere di fermenti totalitari a destra fu lento, impacciato, e si fece a poco a poco preciso, ostentato e minaccioso. Così solo negli ultimi anni anche in sede amministrativa apparve più chiaro il tentativo del M.S.I. d’inserirsi nella vita italiana con un preciso significato, con una pesante carica polemica, con la pretesa d’incidere in modo determinante sulla situazione politica e di correggere ed assimilare la D.C. Perciò la nostra nettissima presa di posizione, che è giunta fino ad una totale preclusione anche in sede amministrativa (una presa di posizione che non intendiamo né rinnegare né attenuare e della quale anzi riconfermiamo intera la validità per il passato e per l’avvenire) trova la sua immediata giustificazione proprio in un certo deterioramento della situazione politica a destra, proprio nel venir meno di alcuni margini, proprio nella pretesa, che parve vicina a realizzarsi, del M.S.I. d’inserirsi nella maggioranza. Tuttavia essa è, anche se in passato meno espressa, e meno polemica, una posizione di fondo della D.C., qualche cosa che attiene alla natura del Partito e senza della quale il nostro non sarebbe veramente un Partito democratico e di schietta ispirazione cristiana, un Partito cioè tutto proteso a salvaguardare la dignità umana, votato alla causa della libertà, capace di collocare le istanze collettive al loro giusto posto, cioè non fuori dell’uomo ma nell’uomo, alieno dalla durezza, dall’estremismo, dall’odio, dall’accettazione della violenza, dall’esaltazione parossistica del prestigio della nazione, dall’irrigidimento dei rapporti internazionali. Queste invece sono le componenti emotive, in tutte le latitudini, di una politica di destra, della quale è altresì caratteristica un furioso, testardo, disperato disconoscimento della realtà delle cose, dei dati nuovi della storia umana, delle esigenze ormai infrenabili di dignità, di libertà, di giustizia, di progresso e di pace. Queste sono, noi pensiamo, esigenze tutte cristiane e come tali noi le facciamo nostre. In vista di questi obiettivi e sulla base di queste aspirazioni noi non abbiamo mai incontrato né potremo mai incontrare forze di destra.
Quale che sia la buona fede altrui, riteniamo che non vi sia possibilità e ragione d’incontro; che l’idea di una qualche assimilazione, di un qualche avvicinamento della D.C. a forze di destra nasca da un equivoco sulla vera natura del Partito e, quel che è più grave e pericoloso, dal disconoscimento della realtà sociale e politica del nostro Paese e del mondo, dalla incomprensione di questo momento storico le cui tumultuose ragioni di sviluppo e di rinnovamento possono essere comprese e secondate solo sulla base di una schietta ispirazione umana, democratica, popolare e precluse così all’influenza deformante del totalitarismo comunista. Una intesa a destra toglierebbe alla D.C., se non la volontà, almeno la possibilità obiettiva di valorizzare tutti gli elementi utili allo scopo democratico del Paese, e di guidare con autorità e mediante una efficace azione positiva il fronte della resistenza e della lotta al comunismo. Una intesa a destra renderebbe impossibile al nostro Partito di assolvere in modo persuasivo ed efficace la sua funzione di garanzia democratica, e precluderebbe ad esso la prospettiva di essere, come è stato finora, la fortunata alternativa democratica alla spirale fatale e rovinosa della rivoluzione e della reazione, del comunismo e del fascismo. Questo è ciò che comporta in effetti, anche se si creda di poter sfuggire a questa involuzione politica con la buona fede, con la tensione ideale, con la garanzia del programma, con abili accorgimenti; questo è il prezzo che si paga disegnando con minor rigore che non sia necessario i confini a destra della Democrazia Cristiana.
Ma si dice che non esista in Italia una destra così configurata, così pericolosa, così incisiva nella vita democratica del Paese. Ora, se noi certamente non possiamo sottoscrivere l’opinione di chi vede in Italia provenire pericoli per la libertà e le istituzioni solo da destra, se non possiamo non avere presente l’enorme peso che il comunismo rappresenta in Italia, non siamo però disposti a minimizzare i pericoli di destra per la vita democratica italiana. Crediamo anzi, come abbiamo detto altra volta, che non ci si debba fermare, soprattutto per una ragione morale e poi per doverosa prudenza in considerazione del mutare delle situazioni e dell’incremento che danno obiettivamente l’uno all’altro gli opposti estremisti, a misurare il peso che in concreto assume il pericolo rappresentato dalla destra totalitaria in confronto a quello implicito nella spinta rivoluzionaria del comunismo. I democratici cristiani hanno la stessa ragione morale, la stessa ragione politica e quindi la stessa ripulsa e resistenza da opporre di fronte a qualsiasi forza potenziale di sovversione dei liberi ordinamenti dell’Italia democratica. Anzi, la nostra vigilanza e resistenza hanno da essere maggiori, proprio perché l’entità di questo rischio per le istituzioni non si computa né in voti né in seggi parlamentari ed è pur vero che esso non risiede intero, pur nell’innegabile riferimento ideale e storico che esso fa al fascismo, nel M.S.I. Sappiamo bene, e lo abbiamo già rilevato, che la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia che avanza fatalmente in una società democratica, là dove sono angustie mentali, egoismi e chiusure, là dove si teme la libertà e non si crede alla sua forza creativa, redentrice ed in definitiva ordinatrice e garante, là dove si guardano in superficie le cose ed il cammino della storia, là dove ci si affida incautamente alla illusoria efficacia risolutrice della forza. La radice del male è nella vita sociale e nelle coscienze, nelle quali, come del resto avviene per il comunismo, essa deve essere compresa ed estirpata su di un piano ideale e con risorse morali. Se non si deve fare alleanza, non basta certo il non fare alleanza a destra, ma di più occorre combattere la battaglia della giustizia, dare autorità alle istituzioni democratiche, fare credito alla libertà perché essa sappia compiere la sua grande opera di redenzione sociale e di realizzazione di una fiduciosa convivenza.
Ma esiste del resto in Italia una destra non solo come stato d’animo, ma anche come reale dato politico. Ed anzi è da rilevare come le recenti consultazioni elettorali, mentre hanno sensibilmente diminuito nel complesso le forze di destra, hanno poi determinato una polarizzazione intorno al partito che con più rabbioso livore ha contrastato la funzione democratica della D.C. ed ha assunto e mantenuto con più rigore posizioni estremistici e su tutti i problemi della vita nazionale.
Le collaborazioni democratiche della D.C.
È ben noto, e non occorre richiamarlo qui, il significato che ha assunto negli scorsi anni la delimitazione dell’area democratica e la identificazione delle forze politiche con le quali la D.C. potesse stabilire costruttivi rapporti e condividere su basi di piena sicurezza democratica la responsabilità di Governo. Le difficoltà sopravvenute grado a grado e che hanno ora il loro momento culminante non autorizzano certo, almeno non autorizzano la D.C., a svalutare nel loro costruttivo significato quelle collaborazioni, a sminuire i compiti assunti ed i servizi resi in comune da quei partiti, a dimenticare i punti di contatto, le comuni intuizioni, lo slancio e la passioni, con i quali furono affrontate le difficoltà e delineati e perseguiti gli obiettivi della ricostruzione dello Stato democratico, assicurata la difesa delle istituzioni, configurata una linea solidaristica e democratica di politica estera. Non abbiamo da ripudiare dunque, nel suo valore storico, questa esperienza per la quale, aderendo, in rapporto ai tempi ed alle circostanze, ai bisogni del Paese, si provvedeva al presente e si preparava nella serenità di una normale vita democratica l’avvenire. Né possiamo disconoscere il significato di quella delimitazione di un’area libera da ogni ipoteca totalitaria, che poneva un netto confine a destra ed a sinistra di fronte a forze che si andavano facendo più risolute e minacciose per la libertà del nostro Paese. Ed in particolare veniva così esplicata un’efficace funzione di differenziazione, di polemica, di monito, ma con significato del tutto costruttivo, verso sinistra, poiché proprio sul lato più esposto dell’area democratica, la socialdemocrazia assumeva una vitale posizione di difesa della democrazia italiana ed esprimeva, proprio per la sua dolorosa lacerazione, una denuncia della pericolosità del frontismo ed un avvertimento severo contro ogni confusione. Il fatto che questa rigida chiusura si sia allentata, nei confronti, s’intende, del Partito Socialista, quando la lenta e faticosa evoluzione di quel partito nel complesso movimento della realtà politica italiana ha consentito di dare su quel punto importante un giudizio meno drastico che per il passato, dimostra come quella chiusura e netta differenziazione fossero in quel momento giustificate e non pregiudiziali e faziose, come esse rispondessero ad una visione responsabile del momento politico e dei rischi incombenti sulla democrazia italiana. Anzi si può ritenere, senza togliere merito alla presa di coscienza dei problemi storici italiani da parte del socialismo ed alle personali assunzioni di responsabilità che hanno spianato la strada alla progressiva affermazione dell’autonomia socialista, che proprio quella differenziazione, invece che la confusione, proprio la delimitazione e non l’irresponsabile apertura dell’area democratica, hanno avuto la loro importanza in quella evoluzione che consente di porre oggi in termini più sereni e costruttivi il problema del rapporto tra i partiti democratici ed il Partito Socialista.
Così pure il fatto che si siano ritrovati in questa area in lunga e costruttiva collaborazione partiti diversi, tutti di sicura tradizione democratica, ma ciascuno con un proprio significato nella realtà sociale e politica italiana, il fatto che nelle tradizionali coalizioni di Governo si siano incontrati partiti di netta ispirazione cristiana e di altrettanto netta ispirazione laica, tutto questo, in un periodo difficile eppur fecondo della storia della nuova Italia democratica, è servito a realizzare la confluenza di diversi ideali politici, ha posto a confronto diverse esperienze, ha avvicinato persino diverse visioni del mondo sul terreno della vita democratica, che ne è risultata consolidata ed arricchita. Il valore della collaborazione, dell’unione nella diversità, della ricerca sul terreno politico di occasioni di utile incontro tra partiti diversi, insieme senza presunzione e senza rinuncia, è infatti un dato acquisito che scaturisce appunto da quell’utile esperienza storica.
Questa collaborazione richiesta dalle circostanze, risponde ad una particolare rigidezza della situazione e degli schieramenti politici sospinta da obiettivi immediati ed essenziali da perseguire, ha reso necessarie ad insieme possibili rinunce programmatiche ed attenuazioni sensibili delle differenze peculiari dei partiti tradizionali coalizioni centriste. Questa volonterosa rinuncia a posizioni più proprie e più chiuse, però, che era stata possibile per un lungo periodo, si è venuta progressivamente attenuando ed infine esaurendo. L’importanza degli obiettivi particolari, la preminenza delle ragioni di divisione sulle ragioni di unità si sono andate grado a grado affermando con il venir meno di quelle ragioni di solidarietà che nascevano dalla particolare situazione politica e cioè con il progredire nella costruzione dello Stato democratico e con la soddisfazione delle esigenze fondamentali della comunità nazionale.
Tutto ciò per un verso faceva apparire come non più necessaria una così stretta intesa difensiva tra i partiti e per l’altro andava mettendo in luce, con il significato delle posizioni e delle caratterizzazioni particolari, il vantaggio che proprio con l’assolvimento di peculiari funzioni, con il sottolineare e valorizzare le differenze si poteva trarre ai fini di un migliore assetto della vita democratica. Si auspicava così un più celere ritmo di sviluppo della vita economica e sociale, per incidere con maggiore efficacia in un ambito di forze ed in settori di opinione restati fino allora lontani e diffidenti di fronte alle istituzioni democratiche. La storia di questi anni è in larga parte la storia della progressiva accentuazione delle differenziazioni programmatiche e della dichiarata e sottolineata diversità di funzione dei partiti, fino al profilarsi di una vera incompatibilità tra le ali sinistra e destra dello schieramento democratico tradizionale. N’è derivata l’affermazione della non utilità e quindi inammissibilità di una collaborazione che impegni il partito socialdemocratico e quello repubblicano da un lato, e quello liberale dall’altro.
Credo che ormai appaia chiaro a tutti che si tratta di un fatto politico serio, meditato e stabile, legato non ad una momentanea infatuazione, ma ad una valutazione della natura dei problemi e dell’entità dei rischi che incombono sulla democrazia italiana.
Credo che mancheremmo al doveroso rispetto della verità, oltre che di partiti che hanno così alta tradizione e coscienza democratica, se sminuissimo questo stato d’animo fino a farne un piccolo gioco opportunistico; se non attribuissimo, per quanto rilievo possano avere i problemi politici cosa proposti dai partiti democratici di centro-sinistra, a questa posizione il significato di una vera tensione ideale, di un serio sforzo rivolto a mettere in crisi il sistema della pressione totalitaria di sinistra sulla vita democratica in Italia, a sciogliere i nodi di problemi insoluti di organizzazione dello Stato e di sviluppo economico e sociale avendo di mira la sicurezza della democrazia italiana.
La D.C., la quale, per essere il perno della vita democratica, ha da essere attenta ad ogni movimento della realtà politica e pronta a contribuire ad ogni utile sviluppo, non può che prendere atto di questa realtà e tenerne conto ai fini della sua azione. Deve farlo, nella sua obiettività e responsabilità, anche se essa possa essersi trovata a grave disagio nell’assolvere il suo compito di garanzia democratica, senza avere né forze sufficienti né appoggi adeguati.
Il P.S.I.
Abbiamo lasciato per ultimo il riferimento al P.S.I., perché esso costituisce il maggior problema ed oggetto di obbligata discussione in ordine agli sviluppi della situazione politica ed a possibili nuovi assetti della democrazia italiana. Non è per un atto di compiacenza o per un artificio, che si discute tanto del Partito Socialista, dentro e fuori della D.C. Si tratta di ben altro che non la nostra più o meno innocente mania o il frutto di un abile gioco diretto a suggestionare la coscienza pubblica. In realtà si parla o non si può non parlare del P.S.I., come di un riserva alla quale attingere, se vi si può attingere, per una più solida garanzia, un più completo sviluppo, la creazione di un più stabile equilibrio in seno alla democrazia italiana. Si potrà avere, com’è per molti e certo in buona fede, e certo nel sincero desiderio di meglio salvaguardare appunto la democrazia italiana si potrà avere, dicevo, una posizione fortemente polemica ed irrimediabilmente pessimistica circa la prospettiva di utilizzare davvero senza rischi ed anzi con vantaggio il P.S.I. per la guida politica del Paese e per la difesa delle istituzioni, ma non si potrà negare che l’unica direzione nella quale si possa guardare, anche senza abbandonarsi ad un facile ottimismo, è quella rappresentata dai settori di opinione pubblica, dal complesso delle forze degli interessi e degli ideali che fanno capo al Partito Socialista. Ciò non significa naturalmente che in tal modo si intenda restringere sostanzialmente l’area democratica alla quale si vuole dare invece maggior respiro, concentrare in modo eccessivo ed in una sola direzione interesse e speranza. Tanto meno questo interessamento significa una sorta di rinunzia per una radicale sfiducia, ai nostri ideali e programmi, o il riconoscimento del fallimento storico dei partiti, ed in prima linea della D.C., che hanno guidato in questi anni il Paese e salvato la democrazia in Italia; o una loro incapacità di rinnovata presenza e di ulteriore espansione nel corpo elettorale. E tuttavia, malgrado questo, vi sono fatti indiscutibili che danno ragione dell’interesse diffuso per il P.S.I., della indubbia rilevanza di quel partito per la vita e l’avvenire della democrazia italiana.
Tra essi è la evidente inutilizzabilità di una destra retriva, diffidente del nuovo, minacciosa, spinta costantemente ad assumere posizioni estreme ed involutive; la ristrettezza, progressivamente accentuata, dell’area democratica; le interne sue fratture alle quali sembra non possa essere posto rimedio più che per volontà di uomini per forze delle cose; i mutamenti interessanti e ricchi di problemi delle strutture sociali; la ineguale distribuzione delle forze politiche nelle varie zone del Paese che, mentre è significativa ed ammonitrice, propone anche problemi immediati e gravi circa una presenza coerente e diffusa della guida politica del Paese; l’evidente necessità infine di non precludere, se non per ragioni di inderogabile difesa democratica, l’assunzione di sempre maggiori responsabilità politiche di vasti e qualificati settori del corpo sociale. In questo senso credo che si sia giustamente parlato di un problema storico, il che vuol dire, prima che indicazione di un dato importante, ma che si può essere costretti a collocare per forza di cose in una prospettiva lontana, in uno sviluppo a largo raggio di eventi, soprattutto che si tratta non di un fatto marginale ma centrale, di un problema che tocca l’essenza e le grandi linee di sviluppo della democrazia italiana. Il che vuol dire che intorno a queste cose, a questi problemi, a queste esigenze occorrono un’attenzione seria, una profonda consapevolezza, un senso teso e vigile di responsabilità in vista di tutto quello che può arricchire e consolidare, o invece fare intristire e lasciare debole ed indifesa, la democrazia italiana. Riconoscere l’importanza del tema, avere presenti le prospettive che si aprono in una direzione o nell’altra in rapporto agli sviluppi della situazione politica, significa appunto eccitare il senso di responsabilità, non abbandonarsi perciò ad un facile ottimismo, ma neppure soffermarsi in un’estatica e preoccupata contemplazione di difficoltà e remore che appaiono insuperabili. Questo senso di responsabilità si riflette da un lato nella visione nitida e lontana delle ragioni che sospingono nella direzione dell’allargamento, come si dice, dell’area democratica, dall’altra nella valutazione seria ed equilibrata dei rischi che l’operazione comporta, della gradualità che si deve adottare, dei modi, i più cauti, secondo i quali essa può essere proposta, dei prezzi che possono essere pagati, ma anche degli insuperabili ostacoli che possano condurre ad una rinunzia, per tener fede a valori, personali e sociali, essi sì veramente irrinunciabili. Un senso di responsabilità perciò che impedisce di acquietarsi di fronte alle prime ed anche alle seconde difficoltà, che conduce ad intendere a fondo il viluppo degli interessi e dei contrasti tra i quali si deve poter fare strada, grado a grado, faticosamente, la verità, che ammonisce a non negare in fatto, con una richiesta globale e massimalistica, ogni agevolazione che possa essere offerta, senza certo concessioni inammissibili, al difficile emergere di una nuova realtà storica. Nella misura in cui il problema di una difesa, su basi avanzate e di movimento, della democrazia italiana è il problema dell’atteggiamento, della disponibilità effettiva del P.S.I., della coraggiosa assunzione di tutte le responsabilità da parte di quel partito, esso è anche il problema della responsabilità dei democratici, della loro capacità di avere quella visione nitida e lontana di cui prima si diceva, di praticare tutta la prudenza idonea a non compromettere, nello sforzo pur generoso, nessuno dei valori essenziali nell’ordine morale e politico, ma anche della loro prontezza nel non chiudersi essi pure in uno sterile massimalismo, per consentire che le cose camminino, se possono, con i tempi, i modi, la preparazione, la gradualità che sono proprie non di esplosive ed effimere improvvisazioni, ma dall’andamento serio e sofferto dei grandi mutamenti della storia.
L’autonomia del P.S.I. dal P.C.I.
In tanta parte il problema dell’autonomia, della iniziativa, della assunzione di responsabilità democratiche del Partito Socialista è riposto nella definizione, non astratta ma in sede storica, dei rapporti di quel partito con il Partito Comunista da un lato, con i partiti democratici, ed in prima linea con la D.C., dall’altro. Ora, qual’è a questo proposito la posizione socialista come si è andata svolgendo in questi due anni che ci separano dal Congresso di Firenze? Che cosa è cambiato in questo tempo per noi e per loro? A Firenze noi affermammo la nostra rispettosa attenzione per quanto avveniva all’interno del P.S.I., sottolineammo il nostro doveroso impegno per non respingerlo su posizioni frontiste, ma indicammo anche, come espressione di indeclinabile responsabilità di fronte al Paese e come contributo allo stesso dialogo con i socialisti, le perplessità nascenti dai permanenti legami tra comunisti e socialisti al livello degli enti locali e dei sindacati, dalle caratterizzate posizioni socialiste in politica estera oltre che dalla accentuata dialettica interna di quel partito. In un bilancio globale noi esprimevamo esigenze ed aprivamo insieme prospettive in relazione ad una evoluzione che avrebbe avuto come protagonista il P.S.I. (e noi con esso, perché si influenza solo in qualche modo ed in qualche misura cooperando), guardando non solo al travaglio interno di quel partito, ma anche alla reazione significativa dei socialisti ai fatti interni ed internazionali: le crisi di Governo, le elezioni amministrative, i problemi delle giunte, i rapporti Est-Ovest dopo il vertice di Parigi, il drammatico caso di Berlino, la ripresa degli esperimenti nucleari da parte sovietica, la rinnovata critica comunista in senso antistaliniano. Non è certo possibile in questo momento analizzare partitamente gli atteggiamenti del Partito Socialista di fronte ad un così complesso svolgimento storico. Basterà osservare che è ravvisabile però lo sforzo di dare per ogni situazione una interpretazione socialista e di definire per essa una autonoma posizione socialista; ma non mancano incertezze, ritorni, situazioni di lacerazione interna, rassegnata accettazione, specie in sede parlamentare, di talune situazioni di uniformità (come nel recente dibattito sull’aeroporto di Fiumicino), evidenti manifestazioni d’incapacità a condurre a fondo con assoluto rigore posizioni, onestamente affermate, di piena autonomia politica. Ma più significativamente si può seguire l’evoluzione del Partito Socialista attraverso il dibattito che si è sviluppato con una notevole intensità negli ultimi due anni, ad iniziativa della maggioranza, su ciò che fa diversi i socialisti dai comunisti, dal quale deriva l’atteggiamento pratico di fronte a quel partito e conseguentemente di fronte ai partiti democratici.
Nella riunione del Comitato Centrale del novembre-dicembre ’60, nella quale si esaminavano i risultati delle elezioni amministrative, l’on. Nenni non mancò d’individuare una delle cause del mancato avanzamento del P.S.I. nell’attacco dei comunisti e quindi di ricavarne come ammaestramento per l’azione l’esigenza di un approfondimento alla base del partito di ciò che fa diversi i comunisti dai socialisti. Si individua così nettamente una radicale diversità nel modo di intendere il senso della conquista, dell’esercizio, della finalizzazione del potere, che viene caratterizzato per i socialisti alla stregua di una assoluta esigenza di rispetto della libertà umana in tutte le sue forme. L’insistenza dei socialisti, che ai superficiali può apparire monotona ed opportunistica, nel sottolineare ciò che fa diversi socialisti e comunisti, sta ad indicare che il valore assoluto e permanente della libertà, mai assente nel socialismo italiano, viene da esso anche se in modo lento e contraddittorio dal vertice alla base ed al corpo elettorale. Lo conferma l’on. Nenni quando, nella sua conferenza di Londra, afferma che «un posto importante tra i nuovi fattori è rappresentato dalla sempre più chiara coscienza della responsabilità democratica del P.S.I.». Tenendo presente questa polemica differenziatrice, va considerata la linea della maggioranza del P.S.I. dai vari Comitati Centrali fino al XXXIV Congresso. Essa parte da una valutazione di fatto dietro la quale peraltro, nella stessa maggioranza, non si trovano sempre uguali posizioni di principio che sono poi quelle decisive e destinate a dare solide garanzie a tutti i democratici italiani. La valutazione di fatto è che, di fronte alle esigenze di rinnovamento della società italiana, il tentativo di darvi risposta mediante l’allineamento del P.C.I. e del P.S.I. è fallito sul piano dell’esperienza. Infatti, dirà Lombardi nella riunione del Comitato Centrale del novembre ’59 che «i lavoratori hanno dato forza ai partiti di classe, ma non la maggioranza assoluta, dimostrando sensibilità per i problemi della libertà, ritenuti evidentemente non coperti da una sufficiente garanzia in forza della presenza del P.C.I.». Da questo dato di fatto deriva la necessità per il P.S.I., per poter essere in qualche modo protagonista dello sviluppo democratico del Paese, di una posizione autonoma, per concorrere con le forze della sinistra laica e cattolica (ma in realtà non vi si concorre se non collaborando con tutta la D.C.) a promuovere, intorno ad un chiaro e significativo contenuto programmatico, il rinnovamento della società. Ora, c’è da chiederci se l’alleanza politica col P.C.I. viene scartata perché, in forza della reazione che genera nella classi intermedie e nei ceti rurali, non consente di fatto di conquistare il potere o invece per le ragioni di principio che fanno diversi i socialisti dai comunisti e per i rischi che questa diversità comporta per la democrazia italiana e per lo stesso P.S.I. Quando l’on. Lombardi, forse accentuando per esigenze di dialettica interna, afferma il proprio acomunismo, si limita in fondo a rilevare la inefficacia di quella alleanza. Quando ci si ferma alla constatazione che nell’Europa occidentale è difficilmente destinata al successo una posizione che si fondi su di una linea comune socialista e comunista nella quale però prevalga l’influenza comunista per la forza preponderante di quel Partito e per i suoi legami di carattere internazionale, si può valutare quanto manchi ancora di chiarezza e decisione una piena politica autonomistica di netta differenziazione dai comunisti. Si possono così spiegare i silenzi, anche del Congresso di Milano, sul problema costituito da alcune forme particolarmente allarmanti, dei rapporti di fatto con i comunisti e, tra l’altro la pregiudiziale decisione di tener ferme tutte le posizioni amministrative di potere comuni dei due partiti. Il che viene rilevato, se non in ordine ad alcune prospettive limitate che possono affiorare nella presente realtà politica, per continuare, contro ogni equivoco, una non inutile ed anzi doverosa polemica che non è rivolta certo, come abbiamo detto altra volta, ad imborghesire il P.S.I., ad impoverire la sua carica critica e di rinnovamento sociale, ad allinearlo su posizioni di anticomunismo ottuso, chiuso, conservatore, ma a sollecitarlo a trarre le conseguenze da quello che fa diversi socialisti e comunisti e non può rimanere senza riflesso nei rapporti tra i due partiti ed, alla lunga, nella impostazione politica generale. Una volta fissato il principio della netta diversità, sulla quale riposa la differenziazione dei due partiti e che neppure l’autocritica di comodo dell’epoca poststaliniana può cancellare, non si vede come ci si possa sottrarre all’esigenza di trarne tutte le logiche conseguenze, che vengono invece eluse da una certa ambiguità di linguaggio ed in pratica da una politica, vorremmo dire, di rischio calcolato nei rapporti tra i due partiti, contribuendo a rendere tortuosa e tormentata l’azione pratica del Partito Socialista ed a porre remore ad una decisa svolta a sinistra della situazione politica nazionale. Nella sinistra socialista poi il rischio dell’allineamento con i comunisti non è deliberatamente calcolato. Nell’approfondimento della diversità ed opposizione tra comunisti e socialisti, nella chiara visione dei pericoli che corre in una situazione di equivoco e di radicalizzazione della lotta politica la democrazia italiana, l’on. Nenni, pur con il limite di una complessa situazione politica da sostenere e della sua ideologia, sembra andare più lontano. Come quando, nella sua relazione al Congresso di Milano rileva che «il filo conduttore che indirizza in maniera diversa le reciproche prospettive dei comunisti e nostre, ci fa respingere come incompatibile con il socialismo ogni dittatura di partito, ci fa ravvisare il nucleo centrale e la sostanza del socialismo nella libertà concreta dell’uomo, che comporta, insieme con l’abolizione della proprietà capitalistica e la socializzazione dei mezzi di produzione, anche l’espressione piena dei diritti individuali di libertà e della vita democratica delle masse… Questo, e assieme la diversa collocazione internazionale dei due partiti, esclude la possibilità di una alleanza generale politica o di una comune lotta per il potere…».
Ed ancora dall’on. Nenni, nella stessa sede, una politica democratica qual è quella perseguita dai socialisti viene definita «diversa da quella comunista, perché non strumentale; valida quando i socialisti sono all’opposizione e quando saranno alla direzione della società e dello Stato; non gravata da ipoteche e dittature di partito; fondata sui diritti di libertà che noi consideriamo una acquisizione permanente della civiltà».
È una prospettiva che attende nella difficile situazione italiana, dove sono grandi punti interrogativi e scadenze serie ed urgenti, un processo di conseguente attuazione, che non comporta l’imprigionamento del P.S.I. in una qualsiasi maggioranza di comodo o la deformazione delle linee essenziali e della funzione del partito, il che tra l’altro non gioverebbe alla democrazia italiana, ma il superamento dell’influenza pressante (e del sospetto di essa) da parte del P.C.I., per rendere il P.S.I. nella sua integra fisionomia, totalmente disponibile al servizio della democrazia italiana.
Ma questo è il discorso di domani, non di oggi; il discorso di quella alleanza politica organica, di quel reale collegamento, di quella appartenenza ad una comune maggioranza che il Congresso di Milano esclude, come l’esclude allo stato delle cose la D.C. nella constatazione della rigida impostazione classista del P.S.I., del suo tormentato processo di effettivo, totale distacco dal P.C.I., dell’inevitabile peso di talune radici comuni tra i due partiti, della prospettiva di politica estera. Questa concezione, se stacca quel partito da ogni pregiudiziale adesione al blocco sovietico e depreca la politica di potenza da chiunque sia praticata, risente ancora troppo di una impostazione generale neutralistica, cioè di una posizione che, rifiutando una scelta tra una politica di libertà ma non di classe ed una politica di classe ma non di libertà, rende il P.S.I. fatalmente esitante ed impacciato in una situazione concreta che richiede spesso decisioni e fermezza anche psicologica, e lo costringe a coprire questa irrisolutezza con una polemica per una interpretazione difensiva del Patto Atlantico, il quale ha i suoi limiti che non possono essere superati né per eccesso né per difetto, e contro posizioni, come si dice, oltranziste le quali non sembra abbiano un peso determinante nello schieramento occidentale e sono soprattutto ignote e naturalmente ignote all’Italia.
Le vicende del socialismo italiano in questi due anni stanno ad indicare, accanto ad innegabili progressi nella assunzione di responsabilità democratiche, il perdurare di ombre notevoli per quanto riguarda un chiaro e responsabile atteggiamento pratico da assumere di fronte al comunismo. È evidente che non si tratta in molti tanto di cattiva volontà, quanto di obiettive difficoltà derivanti dal perdurare di situazioni e caratteristiche legate all’origine stessa del socialismo italiano ed accentuate a volta dalle stesse condizioni politiche nelle quali il socialismo si è andato e si va sviluppando. Tali difficoltà costituiscono innegabilmente un problema che riguarda innanzitutto il Partito Socialista, ma al quale non possono rimanere indifferenti le forze democratiche, senza in qualche modo compromettere la libertà del Paese. Da qui il loro linguaggio il quale, pur non tacendo su quel che non può essere accettato, non distrugge ma costruisce, è un linguaggio cioè di fiducia e di speranza. Da qui la loro prudente disposizione a secondare quelle esperienze che, senza rischio per le istituzioni e con vantaggio della democrazia, possano offrire ai socialisti un’occasione, una prova, una facilitazione per la conquista della loro piena autonomia.
II dovere di governare della D.C.
Non si può certo affrontare il problema della crisi politica, ormai in atto, se non si parte dalla considerazione che ci è accaduto di fare molte volte nel corso di questi anni circa il dovere di Governo che incombe sulla D.C. Esso non scaturisce da una sorta d’investitura che alla D.C. derivi per una ragione propria e diversa dall’unico titolo che ha validità in regime democratico e cioè il consenso popolare, che alla D.C. è venuto e ritornato nelle più diverse circostanze e situazioni politiche, sempre consacrando come guida naturale, anche se noi esclusiva, del Paese un Partito di popolo che interpreta e soddisfa in termini di libertà le aspirazioni delle masse e di vari e vasti ceti del corpo sociale. La ragione del suo compito e del suo dovere non viene dunque dal di fuori e dall’alto, ma dal basso, dalla coscienza pubblica e dalla volontà popolare. Non è una comodità, ma una responsabilità ed un peso. È un principio di presenza, di una costante presenza che non ammette né riposi né ritiri né ripensamenti. È un dovere ed un problema, perché, mentre questa situazione propone l’inderogabile esigenza di provvedere al Governo del Paese, impone una tensione fino all’estremo limite per la ricerca la più attenta e responsabile delle condizioni nelle quali quel compito possa essere assolto, quel dovere adempiuto nel mondo più costruttivo e più utile nell’interesse del Paese. Il richiamo al dovere di governare non può essere assunto come un’apertura a qualunquistiche facilità, quasi che esso abbia in se stesso, in qualsiasi circostanza, la propria giustificazione.
Non è certo qualunquista e facilmente accomodante la nostra ansia di tutti questi anni, nelle condizioni più difficili ed ingrate, in cercare di adottare di volta in volta le soluzioni migliori che la realtà politica e parlamentare consentiva e soprattutto per non snaturare la D.C. e non sacrificare nella soddisfazione delle pressanti esigenze del presente le riserve che il Partito ha in sé per il domani e le stesse prospettive avvenire della democrazia italiana. Non ci siamo dunque mai collocati in una posizione di abbandono e di rinunzia. La verità è che, mentre non abbiamo mai considerato possibile l’esercizio del potere a qualunque costo, l’esercizio del potere per il potere, e non abbiamo mai lasciato deformare il volto della D.C. e mai trascurato, anche a costo della instabilità governativa, di cercare sempre soluzioni nuove, se non perfette, certo più adeguate, ci siamo trovati però e possiamo trovarci anche in avvenire in situazioni nelle quali, una volta salve le cose essenziali, si sia costretti a prendere non l’ottimo, che in quella situazione è inattingibile, ma il buono o anche il mediocre, per cercare di migliorarlo, valorizzarlo, per così dire ravvivarlo con la nostra fede. La verità è che non siamo tutto, che dipendiamo in qualche misura dalla volontà altrui che ci condiziona, che non sempre la volontà di collaborare risponde alla obiettività idoneità in tal senso e che una siffatta obiettiva idoneità incontra limiti e riserve di carattere soggettivo che appaiono talvolta insuperabili.
Stabilire che cosa sia il meglio è un compito arduo, che si assolve alla luce dei principi che un Congresso afferma, delle direttive di fondo che esso traccia, ma che impegna pesantemente, angosciosamente coloro sui quali ricade appunto la responsabilità della decisione. Intorno a queste grandi indicazioni, ai modi di affrancarci il più possibile dai limiti e dai condizionamenti che la situazione presenta, è impegnato oggi il dibattito congressuale come sarà domani impegnato nelle scelte concrete quello che prenderà vita da questo Congresso per condurne ad attuazione le conclusioni.
La formula centrista
Così vi sono state certamente molte critiche, e noi le ricordiamo bene, da destra e da sinistra, prima da destra e poi prevalentemente da sinistra, alla politica del centro democratico, che era espressione di una lotta intransigente su due fronti contro tutte le minacce totalitarie e l’utilizzazione di una seria solidarietà tra diversi partiti democratici, per assicurare la difesa della libertà e lo sviluppo sociale. In quella situazione la D.C., pur accentuando la sua spinta popolare, pur sottolineando il peso di certe rinunce programmatiche, pur timorosa che una visione eccessivamente statica dell’equilibrio bilanciato dei Governi quadripartiti e tripartiti potesse in qualche modo limitare, anche psicologicamente, la sua funzione di interprete larghissima di esigenze popolari, ha lungamente accettato come soluzione adeguata ai problemi politici italiani una formula come quella centrista, giustificata. in vista di una preminente esigenza di difesa democratica. Così la critica interna, finché qualche cosa non è mutato nella realtà politica italiana, fino a che questo mutamento non ha avuto anche un preciso riscontro nelle valutazioni degli altri partiti con noi impegnati nel Governo del Paese, non è stata sufficiente a modificare quell’apprezzamento sostanzialmente positivo ed ottimistico che si è espresso, tra l’altro, nei Congressi di Napoli e di Trento. Ma quando qualche cosa è parsa cambiare nella realtà sociale e politica italiana, quando quella esigenza di difesa chiusa ed intransigente di fronte ad un socialismo abbarbicato su posizioni comuniste è apparsa meno urgente di fronte alla evoluzione faticosa del socialismo verso la sua autonomia, quando alla difesa immobile è sembrato si sostituisse una difesa aperta ed elastica (quella dell’allargamento cioè dell’area democratica), quando il peso delle differenze si è fatto maggiore e maggiore la difficoltà di eliderle in nome di una necessaria solidarietà, allora è incominciata la crisi di quella politica che durava da anni, crisi che ha oggi il sui momento culminante che impone alla D.C. di prenderne atto.
La crisi della formula centrista
Non c’è da stupirsi che i sintomi di questa crisi siano apparsi più evidenti ed incisivi nei partiti della sinistra laica, i quali per la loro posizione e funzione sono naturalmente destinati a ricevere per primi i riflessi e direi le esigenze della iniziativa politica di autonomia del P.S.I. Da qui la loro decisine, che non è oggi, di considerare definitivamente chiusa l’esperienza delle collaborazioni nell’area democratica tradizionale di ritenersi disponibili per ulteriori collaborazioni con la D.C. solo in base a formule nuove che comportino un sia pur cauto e limitato allargamento a sinistra dell’area democratica. Si è spesso ripetuto polemicamente che una siffatta decisione sarebbe più frutto d’incertezze e di sbandamenti della D.C., del venir meno nel nostro Partito di una linea netta ed intransigente in senso centrista che non di una autonoma e veramente convinta valutazione di questi due partiti. Io ritengo invece che la D.C. nelle sue posizioni di maggioranza, sotto il peso di preminenti responsabilità di Governo e di garanzia democratica del Pese, abbia tenuto ferma la linea del centrismo classico fino ai limiti estremi delle sue possibilità. Ma la maturata valutazione e la fermezza dei due partiti di sinistra democratica non possono essere messe in discussione. Il modo come è stata accettata e vissuta la convergenza, che pur poté sembrare a taluno il principio di un’autocritica ed un ritorno mascherato verso le vecchie posizioni, la sua carica polemica quotidiana, la resistenza tenace a qualsiasi tentativo di dare alla formula una dignità formale ed un accreditamento dinanzi al corpo elettorale, stanno a dimostrare che il superamento del centrismo, la ricerca di vie nuove erano per questi partiti cose serie e stabili. Credo che sarebbe stato e sarebbe da parte nostra, oltre che irriguardoso, inefficace il tentativo di modificare unilateralmente questa posizione, la quale semmai potrebbe cambiare in forza di un ripensamento che sia provocato dalla constatazione dell’impossibilità, in condizioni di sicurezza e di efficacia, della cauta apertura verso il P.S.I. e della conseguente rinnovata esigenza di attuare ancora la difesa democratica, nelle forme e con i fini che caratterizzarono le passate esperienze centriste. I motivi critici e la ricerca del nuovo non mancarono nemmeno, come ho avvertito prima, nella stessa D.C., anche se essi non ebbero efficacia decisiva fino a che non fu modificata nel modo retto e definitivo che or ora ho chiarito la posizione degli altri partiti e fino a che non apparve chiaro, pur tra debolezze ed incoerenze, che un processo di autonomia socialista era iniziato, ma che esso, ben lontano dal concludersi ed insidiato da mille difficoltà, aveva bisogno di una qualche comprensione ed incoraggiamento da parte delle forze democratiche, senza di che sarebbero stati probabilmente condotti ad inaridirsi i primi timidi fermenti dell’autonomia socialista. Si profilava cioè anche per noi una politica di movimento, d’iniziativa, di responsabilità, se volete anche di rischio, ma come unico modo di controllare, guardando lontano, gli sviluppi della situazione politica del Paese e scongiurando la drammatica prospettiva di una rinnovata intesa tra comunisti e socialisti. Si comprende bene come la D.C. abbia più a lungo e più tenacemente affermato la validità della formula tradizionale di collaborazione democratica ed abbia proceduto con più prudenza nella valutazione dei rischi ed insieme delle prospettive positive delle novità prospettate e sia giunta sì a considerarla superata in una nuova situazione storica, in considerazione anche della determinante volontà altrui, in vista di una scelta migliore da fare o da tentare, ma non esclusa in linea di principio, non incompatibile assolutamente con la natura della D.C., non eliminabile nella ricerca del meglio o del meno peggio che possa offrire la situazione parlamentare. La D.C. infatti è per suo compito istituzionale più prudente e più attenta a necessità che possano verificarsi ed alle quali essa nella sua responsabilità dovrebbe corrispondere. E ciò non per l’abusata critica circa il carattere composito del Partito e del suo elettorato, perché l’uno e l’altro sono largamente popolari, ma perché il suo compito di Governo, se non può giustificare l’esercizio del potere a qualunque costo e con chiunque, pone tuttavia doveri particolari ed impone la gradualità delle scelte e la loro realizzazione in condizioni di sicurezza. Ciò spiega il peso che hanno nella presente situazione le posizioni assunte dagli altri partiti e le valutazioni prudenti, ma attente e serie, circa le prospettive di un reale processo di autonomia del P.S.I., la opportunità d’incoraggiarlo e di sbarrare la via a ritorni frontisti, la speranza che un più ampio e libero respiro della vita democratica in Italia, aiutato e reso possibile oggi da una posizione più aperta ed esposta della D.C., possa alla fine contribuire a dare più movimento alla politica italiana, possibilità di articolazione nell’area democratica, più propria collocazione ad ogni partito, più fiducia per la stabilità e l’avvenire delle istituzioni democratiche.
Insomma la D.C., nell’ambito delle insuperabili ed acquisite preclusioni a sinistra ed a destra dello schieramento politico italiano, prende le sue decisioni avendo presenti i dati reali della situazione politica ed ispirandosi al criterio di dare, anche se con prudenza e gradualità, le soluzioni più consone alle esigenze del Paese ed agli interessi, guardati in lontana prospettiva, della democrazia italiana. In un mio intervento precongressuale io elencavo dati significativi della realtà politica italiana. Uno di essi è, io dicevo, la decisione or ora illustrata dei partiti socialdemocratico e repubblicano, la ormai riconosciuta inammissibilità ed estrema pericolosità di un allineamento del nostro Partito con le forze di destra totalitarie e paratotalitarie, una esperienza amministrativa, di importanza eccezionale in un ordinamento tutto centrato intorno alle autonomie locali, che rivela l’impossibilità in molte città, e di grande rilievo, di adottare formule di Governo locale incentrate sulla collaborazione con le forze tradizionalmente alleate della D.C. ed infine la prospettiva di un accostamento del P.S.I. ai partiti democratici e di un suo distacco dal Partito Comunista.
Il governo di centro-sinistra
In queste condizioni, che riguardano, come si vede, il presente e l’avvenire della democrazia italiana, non si può dire che una larga scelta sia data a coloro che hanno la responsabilità della vita politica italiana. Ed infatti anche coloro che rifiutano più o meno drasticamente quella esperienza che noi pensiamo sia da ritenere possibile e da tentare, non hanno poi molto di più che argomenti e motivi di preoccupazione da proporre. Argomenti certo seri, motivi di preoccupazione certo condivisi, ma non sino al punto di farne scaturire la paralisi ed una sorta di rassegnazione ad un tempo cieca ed impotente. Ora certo un partito che si trovasse privo di ogni possibilità di iniziativa, condotto per forza di cose a tradire se stesso ed i suoi elettori, non ha altra via che quella della testimonianza, che è la nobile e dolorosa espressione di un declino inevitabile. Ma noi non siamo a questo punto e non siamo chiamati alla rassegnazione, all’inazione, alla mera testimonianza. La D.C. ha ancora delle possibilità, delle prospettive, delle iniziative, nelle quali è il rischio che è in tutte le cose umane; ma è un rischio che può essere affrontato, che può essere, comunque vadano le cose, superato da un Partito unito, consapevole, coraggioso, che rifiuti anche solo di considerare l’ipotesi della sua rinunzia e della sua sconfitta.
Com’è noto, l’ipotesi prospettata come modo di soluzione della presente crisi politica e cauta sperimentazione di nuove vie per la democrazia italiana è quella di una coalizione tra la D.C. ed i partiti della sinistra democratica alla quale dovrebbe accedere dall’esterno il P.S.I. dando un appoggio diretto o indiretto. Non è in discussione in questo momento una alleanza politica, un accordo organico, la vera partecipazione dei socialisti ad una maggioranza parlamentare. Abbiamo avuto occasione di ripetere anche nel corso di questa relazione i motivi di dissenso, le nostre riserve, le nostre preoccupazioni nei confronti del P.S.I. Non solo sono diverse, ho osservato, le nostre ideologie, ma in punti di notevole rilievo divergono le nostre linee politiche. Questo dato di fatto fa registrare, da una parte e dall’altra, la impossibilità di un collegamento organico tra i nostri due partiti ed invero anche con i partiti della sinistra democratica i quali, pur ammonendo circa la opportunità di utilizzare già quello che unisce al Partito Socialista, non hanno mai nascosto né sottovalutato le cose che dividono e nelle quali si rileva la immaturità democratica, nel senso che noi diamo alla espressione, del P.S.I. L’ipotesi che viene oggi prospettata è diversa, invece, e minore. Si tratta cioè dell’appoggio del P.S.I. ad un’azione politica e di Governo nella quale esso riscontri l’esistenza di alcuni punti interessanti sul piano programmatico e per i quali valga la pena di assumere un atteggiamento non negativo.
E’ possibile che, battendo la nostra strada, attuando il nostro programma, aderendo alle nostre genuine ispirazioni, questi punti d’interesse emergano per il P.S.I. e ne giustifichino l’adesione in una qualche forma al progettato Governo di centro-sinistra. Tocca a noi, evidentemente, con profonda serietà, con piena autonomia, con vera consapevolezza delle necessità urgenti del Paese, di proporre senza semplicismi ed insieme senza cedimenti di sorta quegli indirizzi programmatici, quelle prospettive di azione che possano mettere in crisi quella pregiudiziale volontà di opposizione che qualche volta il P.S.I. ha mostrato. Ed alla nostra assunzione di responsabilità spetta agli altri rispondere con pari assunzione di responsabilità. Non è cosa facile per nessuno, lo sappiamo, né per noi né per loro; ma passa per questa comune assunzione di responsabilità la possibilità di superare il punto d’inerzia e di dare avvio a qualche cosa di nuovo e di costruttivo che valga a porre su nuove e più sicure basi la democrazia italiana. Come osservavo in un mio recente articolo, l’interessamento socialista ad un tale assestamento politico avrebbe per sua parte una giustificazione in vista delle esigenze del Paese ed allo scopo di favorire una graduale evoluzione della situazione politica e lo stabilirsi di nuovi, più solidi e costruttivi equilibri. Si tratterebbe dunque di un intervento che non è gratuito ed immotivato, ma ha in sé e nel suo significato politico la sua ragion d’essere ed il suo premio. E così per noi la nostra iniziativa, della quale non si può disconoscere, nelle attuali condizioni psicologiche e politiche, il coraggio, anche se non è esso un coraggio spericolato, ha tra le sue giustificazioni che non è lecito trascurare la prospettiva appunto di un auspicato sviluppo nella vita democratica, di un nuovo e più stabile assetto dei rapporti sociali e politici nel nostro Paese. Si parla di garanzia ed il discorso certo può e deve essere accettato nel senso che non può essere prospettata una politica che metta comunque a rischio le istituzioni democratiche, le alleanze internazionali ed in generale gli impegni elettorali della D.C. Su questo punto non può esservi dubbio o discussione. Si tratta invece di vedere se, ferma restando la fedeltà alle linee essenziali del programma che è comune nei tratti fondamentali alla D.C. ed ai partiti democratici, non essendo previste compiacenti attenuazioni in quel che emerge come essenziale dalla tradizione e dalla posizione elettorale di questi partiti, non essendo consegnata ai socialisti nessuna leva di potere che essi del resto non domandano, riservandosi essi solo di dare un giudizio politico sulla situazione, possa immaginarsi come necessaria, possibile una garanzia dall’esterno e non invece essa sia da ricercare e da trovare nella coerenza programmatica e nella inflessibile fedeltà dei partiti democratici ai loro ideali. Sembra si dimentichi qualche volta che, a parte la pressione di una situazione politica per tanti versi difficile e chiusa, a parte gli obiettivi di garanzia e di sviluppo democratico che illuminano e giustificano questa esperienza, si tratta in sostanza di provare a far combaciare per quel che è possibile i programmi e le aspirazioni dei partiti democratici e del Partito Socialista, in modo che ne possa derivare una qualche possibilità di azione comune, un sostegno dato insieme, perché per questa grande impresa sono tutti necessari, ad alcuni punti fondamentali inerenti alla difesa delle istituzioni democratiche ed al processo sociale del Paese. Si tratta di un esperimento, di una prova, che può riuscire o fallire, ma ha sempre un alto valore come tentativo di sbloccare una situazione difficile per la democrazia italiana, come principio di una chiarificazione circa le possibilità di convergenza in termini nuovi, se essi esistono, delle forze politiche italiane. Ma questa prova non presenta altri rischi se non quelli psicologici e politici generali che sono in ogni momento politico di rilievo. In concreto, questa esperienza è una occasione offerta all’emergere ed al continuo manifestarsi di una reale posizione di autonomia socialista. Non è un’avventura, ma una tappa, un momento del difficile cammino attraverso il quale si approfondisce, e consolida, o nella solidarietà o almeno nella chiarezza, la democrazia italiana.
Il ricorso all’elettorato
Contro l’ipotesi che noi crediamo il Congresso debba ammettere ed offrire agli organi esecutivi del Partito i quali ne saggino la concreta attuabilità, si oppone come alternativa reale solo quella delle elezioni. Si vuole una elezione su di una pregiudiziale, mentre noi ammettiamo, se mai, una elezione su di una esperienza. A parte il fatto che le elezioni anticipate non dipendono da noi e trovano del resto i noti ostacoli costituzionali per la loro immediata effettuazione, io credo che elezioni anticipate sulla pregiudiziale della totale impossibilità d’incontro tra P.S.I. e D.C. siano inopportune, perché una parte notevole dell’elettorato, quello che in definitiva decide in queste competizioni, non è e non sarà persuaso ad assumere un netto atteggiamento da una pregiudiziale, ma semmai da una prova significativa. E non è neppure, noi crediamo, giusto e conforme agli interessi della democrazia, chiedere un giudizio elettorale su di una pregiudiziale, per quanto ragionevole ed importante essa sia. Le strettezze della nostra vita politica, che solo un incosciente potrebbe sottovalutare o trattare con semplicismo, sono tali, l’avvenire della democrazia è così incerto che non si può trascurare di fare la prova che ci è offerta, che ci è dichiarata possibile da parte socialista, una prova d’incontro indiretto sulle cose, un tentativo di far combaciare parzialmente e poi utilizzare i punti di contatto tra i due partiti. Al punto in cui sono le cose non si può volere tutto o nulla. Bisogna provare; noi non possiamo assumerci la responsabilità di non provare affatto. Ed è un’esperienza da fare con gli occhi aperti, con estrema vigilanza, con pieno controllo di noi stessi; ma è un’esperienza da fare con buona fede, seria volontà, fiducia e speranza. Perché nessuno che abbia a cuore le sorti della democrazia italiana può desiderare che questa prova non riesca e che siano saldati i vincoli tra socialisti e comunisti.
La missione storica della D.C.
Per quanto importante sia la soluzione di una crisi politica e soprattutto se essa avvenga nel segno della novità, di una diversa prospettiva che si apre o almeno si tenta di aprire per rispondere alle esigenze a loro volta nuove della situazione ed all’urgenza dei tempi, essa resta tuttavia subordinata per importanza alla conferma dell’intatta forza di vitalità del Partito, all’assicurazione che esso conservi integra la sua fisionomia, al mantenimento di un solido rapporto di fiducia con il corpo elettorale. Per rilevanti che siano le vicende politiche e parlamentari che un partito si trova a vivere, i modi secondo i quali esso fronteggia, come può, mediante intese ed alleanze, la concreta situazione politica, è però vero che è soprattutto il Partito che conta, che esso vive in Governi e maggioranze parlamentari ma non si esaurisce in essi, che è soprattutto il Partito, con la sua storia complessiva, con la sua ideologia, con la sua unità, con la sua carica emotiva, con i valori spirituali che coltiva, con le speranze che accende per il futuro, con il suo significato proprio al di là dei compromessi e delle combinazioni pur necessari, è il Partito come tale, nella sua autonomia e nella sua integrità, che parla all’elettorato e si pone come punto reale e duraturo di riferimento nello sviluppo di civiltà e nell’evoluzione storica del Paese. Ecco perché anche in questo momento, ed anzi soprattutto in questo momento nel quale si prospettano novità che destano e non possono non destare perplessità, e perplessità nutrite certamente in tanti, se non in tutti, in buona fede, con un sincero desiderio di coerenza e di verità, il discorso deve tornare al Partito, a quel che il Partito rappresenta nelle mutevoli contingenze della storia. E’ il Partito che dà la garanzia ed è al Partito che veramente si concede la fiducia. Ed il Partito siamo noi, tutti noi, maggioranza e minoranza, ciascuno con la propria funzione ed il proprio significato, in una varietà che corrisponde alla varietà di un corpo elettorale che è libero e non può essere perciò monolitico; in una unità che corrisponde essa pure alla unità fondamentale del corpo elettorale che, nelle sue particolari visioni e sensibilità, tuttavia si ritrova in una linea comune, in una fondamentale interpretazione della realtà sociale nelle sue esigenze e nel suo divenire, in una comune tensione, che è veramente caratterizzante, verso una meta di giustizia vera in una libertà vera ed alla luce degli ideali cristiani. Non parliamo, amici, di divergenze irrimediabili, di profondi contrasti tra noi, di un rischio reale che sia deformata e tradita nella sua essenza e nella tua verità la D.C. Soprattutto non contribuiamo a creare con una polemica di toni così accesi e così profondamente ingiusta il disorientamento e lo sconforto nel corpo elettorale. Il tener ferme le nostre posizioni, il confermare la fiducia nel Partito, anche se esso si accinge, restando se stesso, a difficili prove, a fronteggiare con senso di responsabilità la realtà quale è, questo dipende largamente da noi, direi esclusivamente da noi. Ricordiamo noi e facciamo capire agli altri che siamo uniti e fermi nelle cose essenziali, quelle che caratterizzano la D.C. e che queste cose essenziali non saranno in nessun caso messe in discussione.
Pur tra tante polemiche, pur tra tante astiose interpretazioni delle nostre azioni e delle nostre intenzioni, è pur vero che non si cessa di guardare alla D.C., che non si può non fare riferimento ad essa che resta il dato fondamentale ed il centro dello realtà politica italiana. Chi vuole cambiare radicalmente le cose, chi vuole instaurare il regime, chi riserva, sotto qualsiasi forma e per qualsiasi finalità, nuovi asservimenti e nuovi sacrifici agli uomini, sa che deve sbarazzarsi dalla D.C. e lo dice. Certe convergenti critiche di parte fascista stanno a dimostrarlo. La D.C. è il nemico e, finché c’è la D.C., integra e forte, né il comunismo né il fascismo possono passare. Chi almeno nello grandi linee concorda con noi, pur nella varietà delle particolari visioni politiche, chi crede nella libertà, chi immagina nel nostro Paese una garantita pacifica evoluzione nella quale le idee sociali più persuasive si possano affermare nel rispetto della libertà, chi vuole comunque il rispetto dell’uomo e che esso non serva ad altri, ma abbia libero il suo rapporto con se stesso, con gli altri e con Dio, non può non riconoscere che la D.C. è il punto di forza indispensabile perché questa visione del mondo prevalga e si attui. Non si può volere in concreto la libertà nel nostro Paese e al tempo stesso sbarazzarsi della D.C. o lavorare per mortificarla.
Ecco, veramente noi siano indispensabili, siamo ancora indispensabili al nostro Paese, se questo deve essere un Paese libero ed umano. Lo sentiamo più vivamente quando vediamo, come nei giorni scorsi, scatenarsi su di noi la furia distruggitrice del comunismo, la sua fredda volontà di travolgere, senza rispetto della verità né rispetto dell’uomo, tutta la D.C., la sua tradizione, la sua storia, il suo servizio fedele alla democrazia italiana, l’ordine che essa ha dato alla nostra società e che è aperto ad ogni miglioramento e progresso. E nessuno s’illuda che con la D.C. non siano per essere travolti, se l’attacco totalitario dovesse riuscire, tutti coloro che credono nella libertà e la vogliono garantita. Perciò abbiamo reagito nel modo più drastico e significativo all’attacco comunista, per sottolineare in genere, e soprattutto in quella particolare situazione, che quella critica significa non correzione ma distruzione, non collaborazione sia pure polemica e negativa ma cambiamento di regime. Quest’è infatti la posta in gioco. Di fronte alla pesantezza dell’attacco totalitario, di fronte alla complessità e gravità dei problemi di Governo, il fronte ad esigenze nuove e nuove attese che nella incessante evoluzione della vita sociale emergono dal Paese ed attendono di essere inalveate e composte sì da evitare scosse ed anzi consolidare le strutture democratiche, la D.C. è ferma e pronta a tenere il suo posto, assolvere il suo compito, continuare la sua opera determinante ed insostituibile per salvaguardare, arricchire e consolidare il regime democratico in Italia. La critica acre e demolitrice, ch’è segno essa stessa della incompatibilità che c’è tra noi ed i totalitari, non oscura né in noi né nel popolo italiano che in tante circostanze ci ha riconfermato la sua fiducia, la consapevolezza del valore costruttivo della nostra azione, del peso delle nostre esperienze e tradizioni, del servizio che i nostri uomini ed il nostro Partito rendono nel Governo, nel Parlamento e nel Paese alla democrazia italiana, di quel che significano per il popolo italiano gli ideali religiosi umani e sociali ai quali ispiriamo la nostra opera, la intatta riserva di energie, di idee, di tecniche, di esperienze, di forza morale e politica con le quali guardiamo al domani e ci prepariamo a costruire ancora una volta, secondo una funzione non esaurita e non diminuita nel corso di vicende pur complesse e difficili, l’avvenire di libertà e di giustizia del popolo italiano. Per questo io mi preoccupo, devo preoccuparmi soprattutto che la D.C. viva e sia consapevole, fiduciosa e forte quanto basta per continuare la sua opera al servizio della Patria italiana; per questo mi importano certo molto i problemi di Governo, le prospettive delle alleanze e delle collaborazioni, il complesso gioco parlamentare; e perché queste scelte siano conformi agli interessi anche lontani della democrazia e del Paese chiediamo alla D.C. dirittura, chiarezza, coraggio, chiediamo ad essa che sia disposta anche a pagare il prezzo che una scelta difficile e che apre prospettive lontane forse richiede. Ma più mi preoccupo della D.C., più mi preoccupo dell’unità e della forza della D.C., che sia pronta in ogni momento a presentarsi al Paese, a persuaderlo ed a tranquillizzarlo con la sua intatta forza ideale, a richiamarlo, con un prestigio ed una energia che ottengano risposta positiva, per guidarlo ancora sulla via del progresso nella libertà.