Signor Presidente, onorevoli senatori, onorevoli deputati, il mio compito è grandemente facilitato dalle molte cose illuminanti che sono state già dette. Io posso largamente rinviare ai tanti brillanti contributi che hanno chiarito quello che, per la tranquillità della nostra coscienza, meritava di essere messo a fuoco.
Ringrazio questi colleghi ed anche quelli dell’opposto schieramento, per gli spunti che mi hanno offerto per una ragionevole ricostruzione.
Siamo tutti consapevoli — io credo — della grande responsabilità che ricade su di noi in questo momento. Il Parlamento italiano — ed anche questo Parlamento — si è trovato dinanzi a decisioni importanti, a scelte controverse: in quelle circostanze l’opinione pubblica, sovente distratta, si è appuntata fortemente su di noi e ci ha giudicato per quello che abbiamo fatto, per il modo con il quale abbiamo trattato temi di autentico rilievo nazionale. Ebbene, il sì o il no che stiamo per dire, non è certo meno impegnativo. Non per nulla siamo radunati in seduta comune per un dibattito prima che per un voto; non per nulla stiamo per porre termine ad un lungo periodo di incertezze e di polemiche; non per nulla stiamo per compiere in un certo modo, in una certa fase, opera di giustizia.
Una volta tanto non siamo legislatori, ma giudici, intendo giudici non in senso tecnico-giuridico, ma politico; e la valutazione che cade su di noi non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma una attuazione concreta di essa. Stiamo infatti per emettere nella sostanza un verdetto (non discuto ora, semmai lo farò dopo, se sia bene o male che un tale compito ci venga affidato, venga conferito a noi, organo squisitamente politico e non ad altri); constato semplicemente il fatto di non sapere se noi, se l’Inquirente, della quale — accettando o rifiutando — portiamo a termine l’iniziativa, possiamo essere assimilati in senso stretto agli uffici di un pubblico ministero o ad altro ancora.
So con certezza, e sento acutamente, che siamo chiamati a mettere ovvero a non mettere in stato di accusa dei cittadini, siano o non siano essi ministri; a queste persone la condizione di accusati – se a tanto si deve arrivare — deriverà dalla nostra decisione, mentre per altri nelle medesime circostanze scaturisce da un atto della magistratura. Questa è la nostra responsabilità, disporre cioè, sia pure in modo non definitivo, della sorte di uomini, dell’onorabilità e della libertà delle persone, come accade appunto ai giudici il cui penetrante potere viene dalla legge appunto temperato e circondato di cautele.
Alto e difficile compito è dunque il nostro, specie in presenza della diffidenza, del malcontento, dell’ostilità che, bisogna riconoscerlo, predominano oggi nell’opinione pubblica. Dinanzi ad un potere come questo, avendo nelle nostre mani il destino di altri uomini, anche la più piccola disattenzione sarebbe inconcepibile ed inammissibile. L’affidarsi a frammentarie notizie della lunga vicenda; il pensare che tutto sia stato già udito e compreso; immaginarci in una sorta di situazione obbligata, in una posizione di partito, in una ragione di disciplina; l’essere in una esigente corrente di opinione: tutto questo è in contraddizione, tutto questo è incompatibile con la funzione del giudicare, che il nostro ordinamento, con una scelta che può essere discussa ma non disattesa, ci attribuisce.
Abbiamo dinanzi degli uomini e dobbiamo saper valutare con lo stesso scrupolo, con lo stesso distacco, con lo stesso rigore, i quali caratterizzano l’esercizio della giurisdizione. Perché anche noi, pur con tutti i nostri dibattiti politici, siamo oggi, se non nella forma, nella sostanza, dei giudici. Lo siamo noi, come lo sono i nostri egregi colleghi dell’Inquirente. Un aspetto del giudicare, infatti, nella naturale dialettica delle posizioni, è l’accusare, è il porre un carico di responsabilità, certo, sul piano strettamente giuridico, ipotetico; ma sul piano umano, già attuale, sopportato, pesante.
Questo è un momento, ed un momento essenziale, del processo; non un intermezzo politico da sbrigare rapidamente, qualche cosa di scontato. È invece un fatto serio ed importante, con una sua autonomia di esame di giudizio. Esso non è irrimediabilmente condizionato dalla fase precedente, tanto da ridursi inutile. Non è un fatto ripetitivo. Non è un atto di distrazione, appunto, tra la fase inquirente e la fase giudicante. Né noi vi possiamo rinunciare, né gli stessi interessati lo possono. E cioè non possiamo saltarlo questo momento, né formalmente né sostanzialmente, come avverrebbe se esso non fosse considerato e vissuto nella stessa linea, con le stesse finalità, con le stesse esigenze, con lo stesso bisogno di conoscenza e di convinzione, i quali caratterizzano le altri fasi del tipico processo politico che il Costituente ed il legislatore sono andati configurando.
Non possiamo dire, quindi, che è inutile e politicamente inopportuno fare, certo avendo presente quel che è avvenuto sin qui, una distinta ricostruzione e valutazione dei fatti Non basta davvero dire che si affidano queste persone, le quali dipendono da noi, le quali sono collegate a noi, non ad un potere bruto e soffocante, ma alla più alta e sofisticata delle giurisdizioni. No, non basta dire, per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite, noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita che noi possiamo fare è di lasciare libero corso alla giustizia, è fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto. No, siamo in ballo anche noi; c’è un dovere di informarsi, di sapere, di decidere in prima persona.
Ed è dovere tanto più stringente, ove si consideri che il nostro sistema sottrae queste persone al triplice vaglio, che è invece assicurato, con la sua funzione correttiva e di tutela, agli altri cittadini. È certo vero che in cambio viene offerto un giudice unico ed esclusivo di altissima qualificazione e di straordinario prestigio, ma non so fino a qual punto, almeno nella psicologia dell’interessato, almeno per l’opinione pubblica più esigente, ciò possa essere considerato compensativo della impossibilità di un vaglio rinnovato da parte di organi sempre più qualificati della giurisdizione.
È quindi comprensibile che, come noi non possiamo rinunciare a compiere ora, in piena autonomia, con grande serietà il nostro dovere, neppure gli interessati possono, per superare un ostacolo politico, per approdare alla oggettività della giurisdizione, confessarsi degni di accusa e chiedere il rinvio al giudizio della Corte costituzionale.
Se essi facessero così, se rinunciassero al dibattito, alla contestazione, alla dialettica di questa fase del processo, non soltanto compirebbero un lungo passo verso la condanna, ma verrebbero essi proprio a disconoscere la funzione illuminante e responsabile della pronuncia del Parlamento e ci esonererebbero indebitamente dalle nostre precise responsabilità.
Dobbiamo dunque giudicare, formulare quel primo giudizio che si esprime in un atto di accusa, nel profilare, almeno come possibile o probabile, una responsabilità penale. La gravità di questo atto esige una adeguata motivazione.
Vi è certo una serie di sfumature nel peso delle prove, che di volta in volta vengono addotte come fondamento della incriminazione. Si va da processi nei quali l’accertamento dei fatti non costituisce più un problema, ad altri a contenuto più o meno largamente indiziario. Ma in ogni caso occorre, per pronunciarsi in coscienza in favore dell’accusa, un complesso di solidi elementi che autorizzino ragionevolmente, se non la condanna, almeno la messa in moto di un procedimento diretto ad accertare, in presenza di un sospetto serio, il fondamento della contestazione.
Ebbene, proprio in questo caso, con riguardo alla posizione del senatore Gui, del quale particolarmente mi occupo, non solo le prove non esistono, ma gli stessi indizi sono così labili, così artificiosamente costruiti, così arbitrariamente interpretati, da ritrarne la sensazione amara di una decisione pregiudiziale alla quale si è cercato di dare, con sottigliezza sofistica, ma lontanissima dalla soglia della credibilità, un sostegno di fatti ai quali si dà significato illecito, mentre essi sono tutti inerenti all’ufficio ricoperto ed in questo ambito pienamente giustificati e, più che legittimi, addirittura doverosi.
La relazione del senatore D’Angelosante è svolta con acuta intelligenza e pieno dominio dei dati del processo, ma è, mi sia consentito dirlo con tutto rispetto, piuttosto settaria.
In realtà, ogni fatto riferito al senatore Gui — il più normale, il più comprensibile nella logica degli avvenimenti, il più giustificato nelle circostanze — acquista, nella maliziosa valutazione di quel relatore, la fisionomia di una diabolica macchinazione. Chiunque conosca, e molti lo conoscono, di varie parti politiche, íl senatore Gui da più di trent’anni, stenterà davvero a ritrovare la sua rude schiettezza, la sua perfetta dirittura, il suo senso innato del dovere e del servizio nella squallida e falsa immagine di tessitore di intrighi e di percettore di tangenti. E non è che io voglia sovrapporre, per forza di sentimenti, per istintiva solidarietà in questo momento di amarezza, il Gui protagonista di impegnato, anche questi sentimenti ci sono, e noi all’immagine che, con palese forzatura, si ingegna di dargli il solerte accusatore. Certo, anche questi sentimenti ci sono, e noi vogliamo pure esprimerli in presenza di così incredibile vicenda, che riserva all’amico ed alla sua famiglia, così come all’onorevole Tanassi, il dolore di essere da tempo, e più che mai in questi giorni, nella impietosa cronaca dei giornali e della televisione, fatto oggetto di sospetti, di deformazioni, di illazioni, immerso nel frastuono della polemica politica, privato di quella serenità cui si ha diritto a conclusione di una vita spesa al servizio degli ideali democratici. Ma il senatore Gui è un combattente, quale è stato davvero nella sua giovinezza, già allora sacrificata, e saprà resistere anche a questa tempesta che la incomprensione degli uomini ha suscitato.
Ma non si tratta, dicevo, di solo sentimento. Si tratta della sconcertante constatazione che l’accusa è costruita sul vuoto, che i fatti sono le normali attività ministeriali, che proprio l’operazione, la quale si presume conclusa con illecite provvigioni, non si compie. A volersi sforzare, per trovare una ragione logica dell’accanita accusa (logica e non politica, la quale ultima si comprende molto bene), si deve pensare che si configuri una sorta di responsabilità obiettiva, per la quale il ministro dovrebbe considerarsi colpe-vole per tutto quanto, a sua insaputa ed al di fuori di qualsiasi partecipazione, venga compiuto di illecito, o anche solo tramato, come è il caso, nell’ambito di materie che rientrano nella sua competenza. Quello che il ministro Gui ha fatto, lo ha fatto alla luce del sole, e non ha il segno della scorrettezza. Non c’è la minima prova, non c’è un indizio appena sufficiente che egli abbia fatto o lasciato fare o conosciuto qualsiasi cosa di men che lecito.
La vicenda in sé, della progettata o tentata corruzione, ha risvolti oscuri, ma da essa nulla viene che tocchi anche marginalmente il ministro della difesa. Vogliamo dunque accusare il senatore Gui in ragione del suo ufficio, per essersi trovato a reggere il suo dicastero nel momento nel quale, con la conoscenza del dopo, si può ritenere si sia da parte di taluno prospettata la possibilità di lucrare una tangente relativa ad una operazione di compravendita? Ma persino la responsabilità morale e politica, nelle circostanze nelle quali i fatti si svolgessero, non appare configurabile. E che dire poi di quella penale, la quale deve essere, come vuole la Costituzione, in ogni caso personale, cioè fondata su una effettiva partecipazione, oggettiva e soggettiva, ai fatti aventi un contenuto antigiuridico? In una società democratica, come è la nostra, non si può essere irretiti e soffocati da sottili ed arbitrari accostamenti, da indizi insignificanti, ma utilizzati con fredda determinazione. Nella nostra civiltà democratica non solo vi è la presunzione d’innocenza, ma addirittura è vietato dire che un proscioglimento sia dovuto ad una prova non completa. Una prova insufficiente non è una prova, e neppure il dubbio, per il rispetto che si deve ai cittadini, può essere evocato. E che dire, allora, di indizi così inconsistenti, i quali dovrebbero essere posti a fondamento di un’accusa infamante a carico di un uomo che non ha mai dato luogo al minimo sospetto, che non è mai stato sfiorato, non dico dalla scorrettezza, ma neppure dalla diceria? Può essere mortificante il farlo, ma nella sommaria ricostruzione dei fatti mi accadrà di rilevare, non per amore di polemica, ma solo di verità, taluno di questi salti logici, taluno di questi arbitri, taluno di questi artifici escogitati per tenere in piedi un’accusa che non regge e che un giudice ordinario, non prevenuto né condizionato, avrebbe immediatamente respinto.
Certo è sconcertante, è anzi avvilente che intorno ad una iniziativa di ragionevole ammodernamento del nostro apparato difensivo, ad un affare trattato con assoluta correttezza e piena rispondenza ai fini istituzionali, si siano profilate iniziative, siano emersi interessi estranei alla logica della buona amministrazione. È certo che, per tramite di propri consulenti, una grande impresa aeronautica americana aveva calcolato, stanziato e messo a disposizione con determinate procedure delle somme di denaro per propiziare una favorevole disposizione dell’amministrazione italiana o almeno scongiurare una predisposizione sfavorevole che, si assumeva, non avrebbe avuto fondamento.
Si può rilevare la meticolosa e burocratica esattezza con la quale si decide su queste cose e l’affare viene trattato. Sembra la cosa più normale del mondo ed è già qualcosa che, nel suo interrogatorio alla SEC, il signor Cowden dimostri di ritenere queste attività illecite, pur senza farsene, propriamente, un problema. Si ha la sensazione che si trattasse di un costume lungamente e largamente praticato e pertanto — il che dà fortemente da pensare — accettato. E uno squallido mondo che viene in evidenza; e si può purtroppo presumere che il bisogno di moralizzazione, che noi tutti sentiamo così vivamente, abbia a manifestarsi egualmente in molti più abiti di quanto la reazione morale a questo caso, venuto in evidenza da noi, non possa fare, a prima vista, sospettare.
Quel che rende ancor più incomprensibile questo atteggiamento dei dirigenti industriali americani è poi la considerazione che presumibilmente essi non avrebbero dovuto trovare, nel caso di specie, insormontabili difficoltà nell’ottenere l’acquisto di un prodotto di elevata qualità, presente all’epoca in più di mille esemplari nei più diversi paesi del mondo, e soprattutto nell’ambito di un sistema di difesa integrato. È quindi da presumere che, incoraggiati da un certo cinismo dei dirigenti delle industrie americane, si muovessero uomini interessati, decisi a profittare di una operazione che aveva sul piano tecnico, economico e politico, i crismi della più assoluta legittimità. Che di questi vantaggi illeciti abbia beneficiato, o anche solo si sia proposto di beneficiare, il ministro Gui è assolutamente incredibile. Com’è, del pari, assolutamente incredibile che egli abbia posto in essere un atto di amministrazione, corretto o non corretto, al fine appunto di rendere possibili gli illeciti guadagni di chicchessia.
Intanto, contrariamente a quanto ritiene il relatore D’Angelosante, e con lui l’onorevole Spagnoli, l’acquisto degli Hercules C-130 era, in linea di principio, del tutto giustificato. Gravi incidenti, con vittime umane, si erano già verificati e gli apparecchi C-119, forniti nel dopoguerra, si avviavano alla inutilizzabilità. Questo stato di cose è riconosciuto da tutti gli esperti. Mano a mano, in mancanza di pezzi nuovi di ricambio, poiché l’aereo non veniva più prodotto, si dovevano utilizzare parti degli apparecchi esistenti, restringendone quindi progressivamente l’uso. E, del resto, anche a questi ripieghi c’era obiettivamente un limite. Certo, si poteva lasciare andare, come si fa per tante cose, ma meritandosi poi rilievi d’imprevidenza e di imperdonabile inerzia. La circostanza, addotta dal senatore D’Angelosante, che neppure gli Hercules avrebbero potuto sostituire compiutamente i C-119, i quali infatti volano ancora, benché in piccolo numero, non significa niente. Si deve almeno in parte e gradualmente rimediare alle deficienze. Su questo punto né la direzione competente né gli stati maggiori ebbero mai dubbi; semmai si discuteva, come è legittimo e doveroso, sul modo di apprestare la nuova linea di volo. La relazione D’Angelosante — e la cosa è ripresa dall’onorevole Spagnoli — sembra puntare sulla utilizzazione dell’aereo nazionale FIAT G-222, ora entrato in opera in ancora pochi esemplari, e lamenta perciò che la scelta in favore degli Hercules abbia ritardato la costruzione dell’aereo italiano. Ma si manca così di precisare che il G-222 non era alternativo agli Hercules, aerei per l’impiego logistico, ma complementare, perché d’impiego tattico. E fu cura del ministro Gui assicurare comunque la continuazione della progettazione (e poi della realizzazione), le quali non subirono ritardi per difetto di finanziamento, ma per la naturale lunghezza della invenzione e sperimentazione dell’apparecchio, che doveva essere creato dal nulla. Gli Hercules erano certo il più solido aereo della specie ed avevano ogni possibilità tecnica di prevalere nella scelta. Essi dovevano gradualmente sostituire i C-119 per impieghi di carattere logistico, dai quali non si poteva prescindere, dato che l’Italia è collocata nell’area della NATO; tanto che già in tempo di pace, dovendosi partecipare a manovre integrate, si è dovuto ricorrere al fitto di aerei stranieri, ottenuto, si dice, a buon prezzo. Benissimo. Ma non si vorrà affermare che, dovendo provvedere alle esigenze per il caso, naturalmente deprecabile, di guerra (ma è in vista della guerra che sono apprestate le forze armate ed è compito della politica evitare che guerra, in effetti, ci sia), si potesse pensare di dover ricorrere alla lunga all’affitto di apparecchi stranieri.
In questo senso si comprende la pressione per non sacrificare il G-222, ma si comprende meno che si volesse puntare tutto e solo sul G-222, il che avrebbe significato dare una soluzione del tutto approssimativa al problema, come purtroppo qualche volta accade, sopravvalutando nell’immediato le possibilità dell’industria nazionale, che solo gradualmente poteva riprendere ad inserirsi, anche nei confronti della grande tecnologia americana, nel contesto della produzione aeronautica internazionale.
In effetti, le diversità dei punti di vista, enfatizzati nella relazione, nel discorso del senatore D’Angelosante e in quello del senatore Spagnoli e di altri ancora, tra Costarmaereo e lo stato maggiore dell’aeronautica e nell’ambito degli stati maggiori, non sono attinenti alla scelta, in sé e per sé, degli Hercules, ma alla preoccupazione che ne risultassero deviati i finanziamenti previsti rispettivamente per le tre armi e, in particolare, quelli relativi all’apprestamento del G-222. Per il resto i capi di stato maggiore, in un incontro collegiale, finirono per trovarsi d’accordo e per sottoporre un promemoria collettivo al ministro della difesa. Le date sono quelle già note. Su questa base tecnica, la sola alla quale il ministro dovesse fare riferimento, essendo inconcepibile che egli, politico, potesse mettersi a giudicare di dati schiettamente militari, mediando tra direzioni generali e stati maggiori, il senatore Gui ritenne suo dovere di passare all’attuazione della direttiva ormai ben definita. E lo fece correttamente, investendo gli organi di Governo competenti per la materia ed informandone il Parlamento. E proprio per tener conto della giusta preoccupazione di non stornare fondi di bilancio altrimenti destinati, il ministro si orientò verso l’ottenimento di un prestito del governo americano, per il tramite della Export Import Bank e, per la parte italiana, dell’IMI.
Su questa strada difficile e di lenta attuazione, si mosse il ministro, dimostrando con quanta scelta di non voler turbare gli equilibri interni dell’amministrazione e di non pretendere di riuscire ad ogni costo. Gli bastava di fare il proprio dovere. Naturalmente si occupò del problema, ma senza cercare di forzare in nessun modo le cose. Si limitò così a prospettare il tema ed a chiedere un incontro collegiale: il tutto alla luce del sole.
Egli riteneva di dover porre in evidenza l’urgenza obiettiva, nell’interesse generale, come egli ha scritto. Frase quest’ultima tutt’altro che misteriosa, anche se su di essa, ancora una volta, si è sbizzarrito il relatore D’Angelosante. Si tratta di un chiaro riferimento al problema dei prezzi che ovviamente aumentavano di tempo in tempo. Che significa che essi fossero stati già aumentati, visto che essi, se la trattativa non si concludeva, erano destinati ad aumentare ancora? Sappiamo poi che il sistema del prestito si rivelò impraticabile, come forse un pessimista avrebbe potuto prevedere. Ma il ministro Gui restò sempre leale verso la propria amministrazione e si rifiutò di prendere in considerazione qualsiasi altra strada, che avrebbe potuto portarlo ad un successo che egli non perseguiva certo ad ogni costo.
Pur in presenza, dunque, del carattere aleatorio di questo modo di soluzione (del quale è impensabile che il ministro non avesse consapevolezza), è a questo tipo di finanziamento e ad esso solo, che, con assoluto rigore, fu fatto riferimento nella lettera d’intenti del 15 gennaio 1970. Con una certa facilità, mi si passi l’espressione, il senatore D’Angelosante tende a svalutare la condizione, veramente bloccante, posta dal ministro nella sua lettera, e cioè che si acquisisse il finanziamento, il che era previsto potesse avvenire esclusivamente con la concessione del prestito da governo a governo. Non è affatto vero che il ministro Gui, come dice il senatore D’Angelosante, abbia sottoscritto la lettera d’intento nella certezza che quel finanziamento fosse assicurato. Né era assicurato in quel momento, né lo era stato mai in passato, né lo fu, nei fatti, in seguito. Si trattava, dunque, di una condizione, autenticamente incerta nel suo verificarsi, apposta alla lettera d’intenti e che, obiettivamente, ne limitava la portata, rendendola, eventualmente, ineseguibile, così come in effetti avvenne con riguardo al finanziamento.
La controparte ne doveva essere, e ne fu, consapevole, essendo essa quindi in grado di giudicare che per lo scrupolo del ministro non si era verificato l’evento al quale risultava legato il pagamento delle tangenti. E vorrei aggiungere per inciso che in quel documento si faceva egualmente riferimento alle compensazioni industriali, delle quali si era fatta richiesta da parte italiana, una volta escluso, per le obiettive difficoltà di apprestamento, il sistema della coproduzione. Che esse siano rimaste in parte ineseguite non è dipeso da insufficiente vigilanza e fermezza del Governo italiano, ma da ragioni obiettive legate, tra l’altro, alla crisi della Rolls Royce.
Il senatore D’Angelosante — egli mi perdoni — lega arbitrariamente i tre fatti succedutisi nel tempo: l’incontro del ministro Gui con gli americani nel dicembre 1969, la firma della lettera di intenti che è del 15 gennaio 1970 e il pagamento di 78 mila dollari alla società Ikaria. Non si vede come si possa pretendere di dare un preciso contenuto ad un incontro al quale non si è assistito e che è stato definito dalle parti sostanzialmente di cortesia. Non si vede su quale fondamento si possa ritenere che in esso sia stata pattuita la formulazione della lettera d’intenzione.
Rileverò, intanto, che il ministro chiese al segretario generale Giraudo consiglio sull’opportunità di accettare l’incontro, al quale, secondo l’affermazione non solo del senatore Gui, ma del signor Egan, fu presente un funzionario italiano…
Una voce all’estrema sinistra. Chi, chi?
MORO. … sia stato egli il generale Giraudo o altro.
Pattuire è il solito termine non appropriato ed offensivo. Il ministro Gui dice, con la consueta sincerità e correttezza, che si accennò (colloquio di mezz’ora con l’interprete) alla lettera di intenti ed al problema del finanziamento. Una simile lettera ci doveva essere e ci fu. Ma non fu oggetto di un contratto scellerato, ma di una previsione amministrativa così come avveniva per il finanziamento. Essa, certo, fu immaginata, come poi fu redatta, con una condizione di difficilissima attuazione. In realtà a quell’epoca la scelta degli Hercules era stata fatta dal Ministero con la presentazione della decisione degli stati maggiori, l’accettazione di quel punto di vista da parte del ministro, la comunicazione ai competenti organi di Governo per il seguito da dare, e l’annuncio in Parlamento. Perché dovrebbe essere quello, invece che un incontro del tutto normale, un momento determinante del presunto iter criminoso e cioè l’accettazione, in sostanza, da parte del senatore Gui, dell’offerta illecita di denaro in cambio della nei fatti inefficace lettera di intenti? Lo stesso ministro, non solo ha dato spontaneamente notizia del colloquio, ma ha indicato anche di esserne stato richiesto, tramite il signor Luigi Olivi, fratello del collega ed amico padovano onorevole Marcello Olivi. Il senatore Gui non conosceva il Luigi Olivi né v’è la minima prova che egli avesse una qualsiasi dimestichezza con lui, salvo che conoscerne, per ovvie ragioni, il nome. Non si può dunque immaginare che preesistesse o si fosse venuta intessendo in quel momento una torbida cooperazione delittuosa tra i due personaggi così diversi e di così diverso livello. La lettera d’intenti era, come si è visto, rigidamente bloccata e tale — è da presumere — sarebbe rimasta, anche se non vi fosse stata la crisi, alla quale esclusivamente il senatore D’Angelosante attribuisce il merito, per così dire, di avere chiuso il discorso dell’acquisto dell’aereo. Si rileva poi il fatto che fosse stata accreditata al nome del signor Egan, presidente della Lockheed in Italia, una somma di lire due milioni e venti mila dollari, corrispettiva delle tangenti previste e che, se inutilizzata per il corso degli avvenimenti, sarebbe dovuta rientrare in America entro il 28 febbraio 1970, termine ultimo prefissato per la permanenza del denaro in Italia e la sua disponibilità. È dunque del tutto chiaro che il ministro rese obiettivamente impossibile un’operazione pattuita da qualcuno e che doveva avere un corrispettivo. Egli fece dunque il contrario di quello che avrebbe dovuto fare se fosse stato corrotto.
E non è affatto vero, come ritiene invece il senatore D’Angelosante, che la scadenza del 28 febbraio 1970 era stata predeterminata ed era, essa, una scadenza-limite. Certo, quella data era stata da tempo stabilita; ma nessuna scadenza sarebbe scattata, se un’accettabile lettera di intenti fosse stata nel frattempo formulata e ricevuta. Chi avrebbe dovuto esserne il beneficiario non si sa, ma tale non era certo il ministro Gui. Infatti, tra l’altro, la lettera di intenti ci fu, ma non del tenore desiderato, e quindi né il decorso del termine, né il sopravvenire della crisi provocarono il ritiro della somma, ma piuttosto il rigoroso comportamento del ministro che operò, al di fuori di ogni intesa illecita, esclusivamente a tutela degli interessi dello Stato.
Il relatore onorevole Pontello ha detto, nel suo efficacissimo intervento, con incisività che io non potrei eguagliare, della vicenda dei 78 mila dollari, pagati in epoca successiva alla società Ikaria, nella quale doveva identificarsi con una evidente approssimazione di linguaggio, il cosiddetto team del precedente ministro. Quel misterioso team che si sarebbe trasferito al Ministero del tesoro (il significato dell’espressione non è suscettibile di essere spiegato) e che viene compensato, come risulta, non solo per l’attività passata, ma per quella futura. La destinazione dei 78 mila dollari è stata chiarita, dall’onorevole Pontello, in tutti gli addendi, in convincente polemica con il co-relatore D’Angelosante. L’insinuazione che quel denaro sia giunto al ministro Gui, al quale sarebbe stato sin dall’inizio comunque riservato, non soltanto colpisce Gui, ma offende la verità in presenza di precise e plurime destinazioni, che non è assolutamente ammissibile considerare deviate verso altra persona. Se si dovesse ritenere, secondo la tesi del senatore Guarino, che sia stato operato un riciclaggio, non disporremmo più di alcuna certezza, ed ogni assurda accusa potrebbe essere rivolta a chiunque. Ho comunque appena bisogno di ricordare la dichiarazione giurata del signor Cowden, ieri richiamata dal collega Gui, e tale da scagionare completamente il ministro della difesa da qualsiasi accusa di illecita provvigione.
Per completezza va fatto un solo rilievo per quanto riguarda l’attività svolta dal ministro successivamente. Egli, nel pieno rispetto delle competenze degli altri organi di Governo, si adopera lealmente per l’auspicata, e poi rivelatasi impossibile, realizzazione del prestito, ma senza alcun cedimento nei confronti della società americana, palesemente insoddisfatta per la decisione del ministro. Ed anzi egli la blocca, in piena intesa con gli organi tecnici del Ministero, quando essa, immaginando di mettere il Governo italiano dinanzi al fatto compiuto, dà notizia di avere comunque iniziato la costruzione degli aerei. Dopo sopravviene la crisi ed il ministro Gui resta estraneo ad ogni ulteriore sviluppo della vicenda.
Mi siano consentite ora alcune considerazioni intorno alla posizione dell’onorevole Tanassi, al quale desidero esprimere, in questo momento di grande amarezza, la mia amichevole solidarietà. Lo faccio nello spirito che ha animato questo mio intervento, e cioè che a fondamento di una decisione così grave, qual è la messa in stato di accusa, vi debbono essere non sospetti, ma seri e coerenti indizi di un comportamento censurabile; che si risponda finalmente, cioè, non per quello che può essere accaduto mentre si ricopriva un ufficio ministeriale, ma solo per quello che si è fatto personalmente sempre che ciò sia sicuramente rilevabile. E lo faccio anche — poiché mi pare inaccettabile che si perda in questa circostanza la propria sensibilità umana — nel ricordo di una lunga e, credo, fruttuosa cooperazione nell’ambito della nostra democrazia.
Dopo tanti anni, credo che ci conosciamo abbastanza per capire se siamo al di qua o al di là della linea di confine tra correttezza e scorrettezza. In questo lungo periodo noi abbiamo lavorato per servire, secondo la nostra interpretazione — e quello che conta è la buona fede — ideali di libertà, alla cui affermazione il senatore Saragat, alla guida del suo partito e nei più alti uffici dello Stato, ha dato un contributo inestimabile. Non sempre, naturalmente, ci siamo trovati concordi nelle stesse posizioni, ma abbiamo saputo sempre di non essere estranei gli uni agii altri, di avere un patrimonio comune (Commenti del deputato Magri — Proteste al centro) che, nell’interesse del paese, quali che siano le vicende nei tempi che cambiano, è doveroso non disperdere.
È un sentimento questo — sia detto per inciso — che vorrei richiamare in questo momento anche nei confronti di altri partiti con i quali abbiamo avuto il privilegio di collaborare e che sono per noi, così come noi pensiamo di essere per loro, un punto di riferimento non cancellabile.
Ma non si tratta certo, in questo insieme sconvolto da tanti avvenimenti, di solidarietà politiche. Si fa affidamento su un giudizio di coscienza, rigoroso certamente come ogni volta che la coscienza è in gioco, ma pure attento a non ferire mai i diritti umani e a non diminuire la dignità della persona senza una adeguata e stringente giustificazione.
Ebbene, malgrado la durezza degli attacchi che sono stati portati, non v’è univocità e certezza intorno alle ragioni che dovrebbero inchiodare l’onorevole Tanassi alle responsabilità che si vorrebbero far ricadere su di lui. Non è mio compito — né io avrei del resto il tempo ed il modo di adempierlo — di fare una compiuta difesa dell’onorevole Tanassi che altri, ed egli pure, hanno già fatto con grande bravura e che è stata portata a termine da un oratore che non potrebbe avere, obiettivamente, maggiore prestigio ed autorità morale. Io mi limiterò a brevi osservazioni, le quali mi inducono a confermare la mia stima all’onorevole Tanassi ed a ritenerlo, quale l’ho sempre ritenuto, un galantuomo, non mosso da interessi privati, ma solo dall’interesse pubblico (Commenti all’estrema sinistra).
Ho detto di essere consapevole, e naturalmente lo ripeto, che qualche cosa di torbido è avvenuto in queste circostanze…
LIBERTINI. Meno male!
MORO. …qualche cosa che merita un’attenzione non soffocata da impazienza politica; ma sono altresì consapevole che è tutt’altro che accettabile l’idea che l’onorevole Tanassi ne sia il protagonista ed il responsabile. Altri ha detto sui dubbi esistenti circa l’utilizzabilità ed attendibilità di prove raccolte con procedura insolita e nell’ambito di persone inquisite e tutte, in qualche modo, presenti in prima persona in queste vicende. Il duplice modo, secondo il quale sarebbero state condotte ad effetto le illecite erogazioni, non può non lasciare, per una ragione di intrinseca contraddizione, la più grande perplessità. Talune modalità di pagamento, così come sono descritte, hanno francamente dell’incredibile e dimostrerebbero una inimmaginabile dose di ingenuità e di cinismo insieme in un uomo indubbiamente esperto e serio qual è l’onorevole Tanassi. E le attività ministeriali prendono luce da queste circostanze. Esse possono diventare sospette proprio e solo nella misura in cui vi sia non già solo un fatto di corruzione, ma un fatto del quale il ministro sia personalmente partecipe e beneficiario. Una prova, questa, che, in un ambiente come quello nel quale i fatti si svolsero, è ben lontana dall’essere data.
Ella ha in quest’aula, onorevole Tanassi, prevenuti ed implacabili accusatori, ma anche colleghi che credono nella sua dirittura e la stimano. Essi desiderano vivamente, ed io per primo, che ella esca da questa vicenda con la testa alta e con il riconoscimento che le è dovuto da parte dei suoi colleghi.
PINTO. Bravo! (Commenti all’estrema sinistra — Proteste al centro).
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non credo che sia il caso di fare questi apprezzamenti. (Interruzione del deputato Pajetta). Prosegua, onorevole Moro.
MORO. Questi, onorevole Presidente, onorevoli parlamentari, sono i fatti quali emergono da uno scrupoloso esame e dei quali, a mio avviso, il significato è chiaro.
Noi siamo, dunque, di fronte alle nostre responsabilità. Abbiamo per questo, naturalmente, alcuni punti di riferimento. Uno di essi è l’attesa di giustizia dell’opinione pubblica. È doveroso considerare come importante lo stato d’animo degli italiani, il sospetto nei confronti del mondo politico, la convinzione che del torbido ci sia, e vada scoperto ed eliminato. E una forza spontanea che potrebbe rompere gli argini, come talvolta fa, pericolosamente, la furia popolare. Si deve essere attenti a queste cose, per senso di giustizia e per accortezza politica. Bisognerebbe per altro domandarsi in che misura questo senso diffuso di sfiducia non sia frutto di una esasperata amplificazione, non sia dovuto più alle nostre polemiche che alla sostanza delle cose (Commenti all’estrema sinistra). Questa situazione, però, non deve indurre ad offrire un colpevole, quale che sia, ad un paese inquieto ed impaziente.
Se dobbiamo cogliere l’opinione pubblica, valutarne gli stimoli ed accentuare la nostra capacità critica, non dobbiamo, però, seguirla passivamente,rinunziando alla nostra funzione di orientamento e di guida. Fare giustizia sommaria, condannare solo perché lo si desidera, offrire vittime sacrificali, ebbene, questo non sarebbe un atto di giustizia, ma pura soddisfazione di una esigenza politica. L’obbedire alla opportunità, benché la politica sia, in un certo senso, il regno dell’opportunità, non paga; colpire delle persone, senza che siano date rigorosamente le condizioni che ne giustificano e richiedono la condanna, è un atto di debolezza ed una violazione dei principi. Ed i principi sono, nel nostro ordinamento repubblicano, il rispetto della persona e la libertà, se la legge non lo impone, dall’accusa e dalla pena (Applausi al centro).
Ciò vale sia se si tratti di ministri, sia se si tratti di semplici cittadini. Sono parimenti inammissibili una condizione di privilegio ed una condizione di pregiudizio, indistintamente, per tutti. Trasformare in reati atti di ufficio finché non ne sia obiettivamente dimostrato il collegamento con un fenomeno di corruzione è una violazione dei diritti dell’uomo ed una distorsione dell’efficace svolgimento dei compiti amministrativi, altrimenti esposti ad essere sempre paralizzati. Più che un processo indiziario, questo è un processo fondato sui sospetti e sui pregiudizi. (Commenti all’estrema sinistra).
Sono in gioco la libertà e, soprattutto, l’onore delle persone; e questo è un tema al quale il Parlamento è sempre stato estremamente sensibile. Perché mai dovrebbe dimenticare, oggi, questa alta ispirazione che gli fa onore? Perché dovrebbe cedere alla passionalità ed a non motivati orientamenti dell’opinione pubblica?
Una volta investito del compito di mettere, se ve ne sono le condizioni, in stato di accusa i ministri, esso non potrebbe limitarsi, come vorrebbe l’onorevole Biasini, a correggere, eventualmente, per un’eccezionale ragione politica, le risultanze della Commissione inquirente; ma deve assumersi tutte le sue responsabilità, ripercorrendo il cammino, riesaminando i fatti, cogliendo i significati, legando le cose che vanno veramente legate e slegando quelle che debbono essere invece slegate, respingendo palesi forzature.
Ho la più grande considerazione, oltre che della persona, delle meditate opinioni dell’onorevole Biasini, ma, in coscienza, non mi sento di seguirlo su questo terreno, non mi sento di accettare questa interpretazione giuridico-costituzionale. Noi siamo completamente liberi, pur rendendo il dovuto omaggio (e vorrei anche ricordare con doveroso apprezzamento la benemerita commissione d’inchiesta amministrativa Papaldo) alla Commissione inquirente ed al suo scrupoloso ed acuto Presidente, i quali meritano tutta la nostra stima. (Commenti all’estrema sinistra — Proteste al centro).
Possiamo e dobbiamo vagliare i pro ed i contro che questo tutt’altro che inutile dibattito ha messo in luce. Non è ammissibile che noi ci muoviamo seguendo rigidamente posizioni precostituite, direttive fissate in sede politica, come se fosse questa la sede di una lunga serie di dichiarazioni di voto relative ad una decisione già presa ed immodificabile, malgrado la forza degli argomenti e la illuminazione della ragione.
Naturalmente, ho sensibilità politica quanta basti per comprendere quanto sia difficile, per taluni di noi, imboccare questa strada. So che occorre molto coraggio e la capacità di affrontare una certa misura di impopolarità, anche se noi pure siamo responsabili per aver lasciato sorgere e montare, per una ragione politica, per una ragione elettorale, per una ragione di opposizione, questa attesa. Si è dunque ceduto ad una tentazione dalla quale, è comprensibile, diventa disagevole tornare indietro verso la misura e la ragione. Ma questa è l’esigenza politica del momento.
Se mai, questa vicenda induce ad un serio riesame del meccanismo di accusa che la stessa Costituzione ci ha indicato e che noi abbiamo completato con leggi e regolamenti successivamente emanati. Da tante parti, infatti, sono venute manifestazioni di insoddisfazione, e anche di profonda insoddisfazione, per il modo con cui sono regolate queste cose. Ed è emerso un certo orientamento (sul quale per altro occorre compiere una più approfondita valutazione) di trasferire una parte almeno di questi scottanti e pesanti doveri ad organi più idonei alla funzione del giudicare, nella quale sono presenti un abito mentale di obiettività e la possibilità di un’opportuna correzione nell’ambito stesso del sistema, la libertà dal sospetto, che invece, riconosciamolo, colpisce in larga misura noi, qualsiasi cosa noi facciamo.
REICHLIN. Ma c’è una ragione, per questo, dopo trent’anni di vostro Governo!
MORO. Sospetto di indulgenza o sospetto di severità, sospetto di insabbiamento o sospetto di persecuzione, sempre ovviamente indebiti. Da questi stati d’animo collettivi in nessun caso noi risulteremo indenni. C’è il rischio obiettivo di un’inammissibile politicizzazione e quello, altrettanto grave, che il nostro comportamento sia considerato inficiato da ragioni di parte, in una qualsiasi direzione.
Io credo, a titolo ovviamente personale e senza per nulla impegnare il mio partito, che dovremmo muoverci, sia pure con estrema ponderazione, in questa direzione. Un mutamento minore, e pur significativo, potrebbe essere — come è stato da qualche parte proposto — quello di affidare l’istruttoria ad un organo speciale della Corte costituzionale. Ma io andrei più in là fino a domandarmi se non convenga restituire questo potere speciale che ci è stato dato (e che crea oltre tutto tante complicazioni per gli eventuali correi non politici), all’organo normale di giurisdizione, ovviamente con il controllo costituito da una autorizzazione a procedere seriamente esercitata, che avrebbe qui piena giustificazione.
Posso comprendere ancora l’esigenza di un organo speciale di giurisdizione e di particolari e meditati interventi politici per casi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione. Ma francamente, in una vicenda come questa, che potrebbe definirsi solo squallida, se non vi fosse il drammatico problema di un’innocenza che rischia di essere contestata, non vedo quale fondamento possa avere un così complicato ed eccezionale meccanismo di accertamento della verità. Basterebbe un giudice ordinario, debitamente controllato, nella piena autonomia dell’esercizio della giurisdizione, da parte di un altro giudice competente per fatto e per diritto (Commenti all’estrema sinistra).
Dico queste cose, che hanno un significato solo marginale (ma avremmo torto a lasciarle cadere, una volta passato questo momento, perché c’è un rischio di involuzione verso una giustizia politica), appunto per rendere evidente la delicatezza della situazione nella quale ci troviamo, mentre dobbiamo rendere giustizia. Ciò vuol dire anche accusare o non accusare, a seconda della nostra convinzione. La rilevata opportunità di una riforma non deve essere, per altro, un alibi per seguire la via più facile, per sfuggire con un atto precipitoso di accusa ad una scelta razionale.
Si può dire che il dibattito sia stato estremamente duro, ma le forze responsabili non hanno superato certi limiti. Incidentalmente, mi sia consentito dire che, con evidente eccesso, si è prospettato, sotto il profilo della moralità, il caso dell’Italia quasi fosse unico nel nostro pianeta. Ma conserviamo un certo realismo! Non facciamo gli altri sempre migliori di noi, per le nostre polemiche! È molto brutto che certe cose avvengano. Ma, onorevole Felisetti, che cosa si è fatto in America, per colpire certi implacabili corruttori a livello mondiale? Che cosa si è fatto in altri paesi, ove sono stati concessi generosi perdoni per colpe riconosciute e si è assistito a straordinarie rivincite elettorali? (Proteste a sinistra e all’estrema sinistra).
Rendiamo dunque serenamente giustizia, alla luce delle cose provate, e preoccupiamoci anche di quelle che, in questi giorni, abbiamo un po’ dimenticato: non facciamo dunque di questo episodio un momento di distrazione in confronto ai grandi problemi di recupero e di normalizzazione, ad un più alto livello, che il paese oggi si trova ad affrontare (Interruzione del deputato Ugo La Malfa — Proteste a sinistra e all’estrema sinistra). Dobbiamo affrontarli tutti noi con una certa misura di armonia, appropriata e graduale, in un contesto di stima, di serietà e di cooperazione.
Benché io sia convinto che i nostri mali sono inerenti non agli obiettivi, ma ai modi con i quali essi sono stati e sono tuttora perseguiti, modificare i quali, contrastando, secondo necessità, tutte, dico tutte, le forze influenti, è somma responsabilità nostra; benché io sia convinto di questo — dicevo —, dobbiamo riconoscere che oggi il tessuto sociale è largamente lacerato, le istituzioni sono squilibrate, non coordinate e sovente impotenti, la violenza è così paurosamente presente da mettere a repentaglio l’ordinato svolgimento della vita di relazione.
Al di là del traguardo di questa tormentata decisione, c’è dunque la realtà del paese che esige la nostra coraggiosa iniziativa, ad evitare che siano resi vani gli sforzi coraggiosi di generazioni di democratici per creare un’Italia libera, moderna e civile.
Atteggiamenti pregiudiziali, rigide posizioni accusatorie, indisponibilità alla riflessione hanno caratterizzato purtroppo, e duole doverlo riconoscere, questo dibattito. Ma le cose sono state dette con qualche riguardo e con riguardo sono state ascoltate. Non c’è stato però riguardo in alcuni interventi, e penso, in particolare, a quelli degli onorevoli Pinto, Corvisieri e della parte radicale. Mi sono domandato se ad essi dovesse essere data una risposta. Ed ho pensato che una risposta fosse opportuna innanzi tutto per esprimere il vivo rammarico per il modo grossolano ed irresponsabile con il quale sono state dette intorno al Capo dello Stato cose che offendono la verità (Applausi al centro) prima che la persona alla quale, nel rispetto del paese, è stata affidata una così alta funzione.
CORVISIERI. Ma è amico di Lefèbvre o no? (Proteste al centro).
PRESIDENTE. Onorevole Corvisieri, ella ha parlato, lasci ora parlare l’onorevole Moro.
MORO. In questi oratori, poi, il quadro dell’accusa si è, non occasionalmente, ma intenzionalmente dilatato, fino a toccare, al di là degli uomini, il partito che ha guidato per 30 anni l’Italia ed è ancora oggi, pur negli spostamenti di forza verso sinistra, in una posizione dominante e di alta responsabilità. Il suo potere non è espressione di regime; non nasce dalla coercizione, ma dal consenso, dalla profonda consapevolezza, nell’opinione pubblica, d’importanti valori e modi di vita da garantire e dell’inaccettabilità di talune globali proposte alternative.
Come se la nostra fosse una sfida, come se il nostro consapevole e risoluto atteggiamento fosse un atto di prevaricazione, ci si accusa di fare quadrato attorno al senatore Gui. Segno questo, si dice, della nostra arroganza, della nostra incapacità di accettare, comunque, un’accusa ed una sconfitta: una pretesa, cioè, di superiorità e d’intangibilità. In realtà, la radice psicologica e politica della nostra posizione è diversa. Non si tratta di pura opportunità; non si tratta di un calcolo, di una chiusura pregiudiziale di fronte alla verità da accertare, una verità purificatrice e quindi consona ad una democrazia che deve avere il coraggio di identificare e di correggere ogni deviazione.
Noi siamo invece di fronte ad una fase della procedura che richiede da noi un «sì» od un «no» ad un’accusa, e non in un momento di passaggio automatico ad un’altra fase, che noi ovviamente rispetteremmo. Dovremmo dire che il senatore Gui è colpevole, o almeno che noi non sappiamo in che posizione egli sia di fronte ai fatti dei quali oggi discutiamo. Ed analogamente dovremmo pensare dell’onorevole Tanassi. Ma a questo riconoscimento, né implicito né esplicito, noi non possiamo giungere per una ragione di coscienza. Di coscienza, dico, e non già di utilità, ché anzi forse la ragione politica potrebbe suggerirci un atteggiamento dilatorio, anche se sappiamo che l’ulteriore momento processuale, unico e definitivo, potrebbe riservare, per il modo come esso è strutturato, incomprensioni ed impuntature non minori di quelle (tutte politiche) di fronte alle quali sinora ci siamo trovati.
Anche qualcuno di noi avrà guardato a questa prospettiva liberatoria. Ma si è pensato molto. Sarebbe stato come offrire, per la nostra utilità di partito, per un alibi di partito, una vittima alla ragione di Stato. Pensandoci appunto più a fondo, vi abbiamo rinunziato ed abbiamo fatto, come si dice, quadrato intorno al senatore Gui, perché la nostra convinzione è l’innocenza, perché vediamo solo sospetti ed artifici rivolti a contestare una vita di mai smentita dignità, una vita dedicata non a giochi di potere, non ad intrighi di partito, ma alla causa della democrazia ed al servizio dello Stato.
Non sappiamo se questo atteggiamento ci danneggerà. Non ce lo domandiamo, perché la ragione per la quale lo assumiamo è troppo grande per essere barattata contro un ammiccamento… (Vivissimi applausi al centro e dei parlamentari di Costituente di destra-democrazia nazionale — Interruzione del deputato Pajetta — Vive proteste al centro).
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, lasciate parlare l’onorevole Moro! A tutti è stata concessa ampia libertà di parola; lo stesso diritto ha l’onorevole Moro! Onorevoli colleghi, siamo alla conclusione di un dibattito che si è svolto sinora in modo equilibrato. Prosegua, onorevole Moro.
MORO. …con un ammiccamento, contro coscienza, all’opinione pubblica. In questa posizione troviamo unita la democrazia cristiana ed intendiamo con essa difendere la democrazia cristiana nel suo insieme. Ci siamo divisi qualche volta, ma su cose minori, su cose opinabili. Quando però si è trattato di grandi temi, di grandi scelte, di grandi valori, noi non ci siamo divisi, ma semmai altri si sono divisi, a dimostrazione del fatto che, obiettivamente, l’area della verità era più ampia della nostra personale convinzione (Interruzione del deputato La Torre).
Difendiamo dunque uniti la democrazia cristiana. Non qualsiasi…
PANNELLA. Con gli omissis, come al solito!
MORO. …uomo della democrazia cristiana e qualsiasi momento della sua esperienza politica. Tutt’altro. Sappiamo discernere, fare la nostra critica, abbandonare, se è giusto, posizioni sbagliate. Ma questo, non è il caso.
Noi sappiamo che quest’uomo non merita di essere ulteriormente giudicato…
URBANI. Neanche giudicato?
MORO. …e non possiamo indurci a dire cose diverse da quelle che noi pensiamo. Non è dunque che non siamo capaci di rivedere le nostre posizioni.
Non si tratta, onorevole Felisetti, di un primato, quale che sia, della democrazia cristiana, il quale è del resto una fredda constatazione dei fatti, fatti importanti anche perché durevoli, il che dimostra che essi hanno non ragioni occasionali, ma radici storiche.
Sì, teniamo ad un primato che sia anche di giustizia e di moralità nell’ambito di un sistema libero, nel quale i colpevoli, se siano veramente tali, possono essere esemplarmente puniti.
Quello che non accettiamo è che la nostra esperienza complessiva sia bollata con un marchio di infamia in questa sorta di cattivo seguito di una campagna elettorale esasperata. Intorno al rifiuto dell’accusa che, in noi, tutti e tutto sia da condannare, noi facciamo quadrato davvero. Non so quanti siano a perseguire un tale disegno politico, ma è questa, bisogna dirlo francamente, una prospettiva contraddittoria con una linea di collaborazione democratica. A chiunque voglia travolgere globalmente la nostra esperienza; a chiunque…
Una voce all’estrema sinistra. Non è il prezzo che ci potete chiedere!
MORO. …voglia fare un processo, morale e politico, da celebrare, come si è detto cinicamente, nelle piazze, noi rispondiamo con la più ferma reazione e con l’appello all’opinione pubblica che non ha riconosciuto in noi una colpa storica e non ha voluto che la nostra forza fosse diminuita. Non accettiamo di essere considerati dei corrotti, perché non è vero. Anzi, vogliamo ricordare, senza pretesa certo di esclusività, alcune figure moralmente esemplari, molte figure, talune politicamente importanti, altre meno, ma delle quali è dire poco considerarle ineccepibili.
PANNELLA. Gava! Gioia! (Vivi commenti all’estrema sinistra).
PRESIDENTE. Onorevole Pannella! Onorevoli colleghi!
MORO. Vi sono gestioni di Governo, nell’arco di tanti anni, assolutamente corrette… (Commenti all’estrema sinistra — Vive proteste al centro).
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, lasciate parlare l’onorevole Moro!
MORO. …ed innumerevoli amministrazioni locali esemplari per il loro rigore ed il loro impegno. Abbiamo certo commesso anche degli errori politici, ma le nostre grandi scelte sono state di libertà e di progresso ed hanno avuto un respiro storico, tanto che ad esse deve ricondursi chiunque voglia operare efficacemente nella realtà italiana. Certo un’opera trentennale, per la quale si realizza una grande trasformazione morale, sociale e politica, ha necessariamente delle scorie, determina contraccolpi, genera squilibri che debbono essere risanati, tenendo conto delle ragioni per le quali essi si sono verificati. Ecco perché al balzo in avanti innegabile di questi anni segue una crisi che deve essere diagnosticata con rigore e curata con coraggio. Ma essa non significa affatto che tutto fosse sbagliato, ma solo che vi sono stati eccessi ed errori, in qualche misura inevitabili, in questo processo storico. Esso ha avuto in complesso un’accentuazione personalistica, ma in un contesto comunitario. Forse la sintesi di questi due momenti, sotto l’urgenza delle cose, può essere stata in qualche caso imperfetta, ma nessuno si illuda di fare a meno di queste due componenti, nessuno pensi di governare l’Italia senza rispettarle entrambe. E, come frutto del nostro, come si dice, regime, c’è la più alta e la più ampia esperienza di libertà che l’Italia abbia mai vissuto nella sua storia (Vivissimi applausi al centro), una esperienza di libertà…
ROMUALDI. Con i comunisti al potere, la libertà? Questa è la libertà?
PRESIDENTE. Onorevole Romualdi!
MORO. …capace di comprendere e valorizzare, sempre che…
PANNELLA. Dillo ai morti di piazza Fontana! (Commenti all’estrema sinistra — Proteste al centro).
PRESIDENTE. Onorevole Pannella!
MORO. …non si ricorra alla violenza, qualsiasi fermento critico, qualsiasi vitale ragione di contestazione, i quali possano fare nuova e vera la nostra società. Non si dica che queste cose ci sono state strappate. Noi le abbiamo rese, con una nostra decisione, possibili ed in certo senso garantite.
Per tutte queste ragioni, onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare. Se avete un minimo di saggezza, della quale, talvolta, si sarebbe indotti a dubitare, vi diciamo fermamente di non sottovalutare la grande forza dell’opinione pubblica che, da più di tre decenni, trova nella democrazia cristiana la sua espressione e la sua difesa.
Credo che essa non intenda rinunciare a questo modo di presenza, così come noi non pensiamo di rinunciare a questa forza, ai diritti che ne conseguono ed ai compiti che ci sono affidati. Si tratta di cose estremamente serie, ed è doveroso in questo momento riaffermare le ragioni della libertà e la necessaria integrità del paese nella sua sostanza sociale e politica.
Rispettando gli altri, desideriamo essere rispettati a nostra volta in qualsiasi momento, ed in particolare quando esprimiamo un voto di coscienza. Chiediamo di essere rispettati non solo per la imponente quantità di consensi che, sostanzialmente inalterata, noi abbiamo alle nostre spalle, ma anche e soprattutto perché, mentre è in atto una corrosione dei valori e delle strutture della società, una corrosione che dovrebbe fare riflettere seriamente quanti vanno al di là dell’immediato e guardano al domani, noi rappresentiamo non solo dei voti, ma idee, attese, speranze, valori, un patrimonio insieme di innovazioni, di ricchezza umana, di stabilità democratica, del quale il paese, secondo la nostra profonda convinzione, non potrebbe fare a meno.
Comunque termini questa vicenda, quale che sia la sorte degli uomini per la quale, pieni di passione e speranza, ci siamo battuti, noi democristiani, fedeli alla tradizione, faremo ancora il nostro dovere (Vivissimi, prolungati applausi al centro e dei parlamentari socialdemocratici — Molte congratulazioni).