ISIS, la comunicazione del terrore

MICHELE DI SALVO

Da sigla quasi sconosciuta, e relegata a costola di AlQaida, oggi l’ISIS domina le pagine di tutti i giornali del mondo e «invade» – letteralmente – il web, ponendo mille interrogativi e generando qualsiasi teoria complottista e retroscenista. Nel mio ebook «Isis, la comunicazione globale del terrore» quello che ho analizzato e il «modello comunicativo», ossia l’evoluzione del modo con cui i movimenti jihadisti e qaidisti hanno deciso di comunicare, la loro strategia di creazione del modulo-mito e gli obiettivi strategici di questa nuova forma comunicativa. Ma ho affrontato anche alcune delle «teorie del complotto» grazie alle quali il mito viene alimentato e rilanciato e crea una sorta di ulteriore «alone di mistero» utile a creare fascinazione, soprattutto all’estero.

Del resto si immaginano teorie del complotto e retroscena solo di fenomeni «rilevanti nella storia», e per diventare «rilevanti nella storia» non c’è niente di meglio che alimentare e creare un complotto o un mito retroscenico oscuro che alimenti – ulteriormente – la ricerca e la discussione. Non esiste infatti nulla di più attrattivo della partecipazione di un «mistero da svelare», di una verità da scoprire, di un complotto da smascherare; e tutto questo, con un uso sapiente della rete, e mettendo insieme indizi che tra loro insieme non stanno, è anche possibile trasformare questa «ricerca della verità» in un vero e proprio «social game» interattivo, in cui ogni player, ogni navigatore, ogni lettore, finisce con il contribuire al puzzle della «rilevanza in rete» (anche solo un link interno ad un post o con un click che faccia salire il risultato nelle classifiche di Google).

Al di là del giudizio certo sul fatto che sia la più spietata organizzazione terroristica, ISIS si caratterizza per essere anche la più strutturata macchina di propaganda e arruolamento globale del terrore. Se non ci fosse stata AlQaida, se non ci fossero stati attacchi così spettacolari negli anni, culminati con l’attacco alle torri gemelle, e se non ci fosse stata una così fitta campagna mediatica che – involontariamente e forse anche incautamente – ha creato «il mito» del martire che come Davide che sconfigge Golia «porta l’attacco nel cuore dell’occidente», tutto quello che stiamo narrando come evoluzione non avrebbe avuto il suo nucleo fondamentale.

AlQaida è stata la fucina che ha forgiato in almeno due direzioni la nuova struttura del terrorismo estremista e fondamentalista. Da un punto di vista organizzativo, la struttura a «cellule» tra loro scollegate ha tolto l’arma più potente nelle mani dell’occidente: l’intelligence e la capacità di ricostruzione delle strutture organizzative e degli alberi sociali delle strutture terroristiche. Tutto il know-how di intelligence è stato letteralmente reso inutilizzabile, come hanno dimostrato anche i numerosi arresti e i tentativi di ottenere informazioni anche sotto tortura e con mezzi «non convenzionali». Nessuno degli arrestati, anche quando deciso a collaborare, aveva notizie davvero importanti e rilevanti, men che meno capaci di assestare colpi decisivi alla struttura dell’organizzazione.

Da un punto di vista della comunicazione, ogni altra organizzazione terroristica e combattente conosciuta dalla seconda guerra mondiale in avanti (anche prima ovviamente) aveva come elemento essenziale di sopravvivenza la segretezza (o comunque riservatezza) sulle identità dei propri leader. Al Qaida inverte questo fattore e «crea miti» proprio viralizzando e mostrando volti e diffondendo discorsi audio e video, in primo luogo di Osama BinLaden. Sfrutta «l’effetto Che Guevara» per favorire l’arruolamento in un’organizzazione che oltre ad un progetto jihadista offre protagonismo e visibilità.

≪Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro,i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me,e io sollevero la mia fiaccola accanto alla porta dorata≫. Sono i versi di The New Colossus, dedicato da Emma Lazarus alla Statua della Libertà, e scolpiti sul suo piedistallo, diventati un vero e proprio inno per le decine di milioni di immigrati che hanno trovato negli Stati Uniti la terra promessa. È questa la parafrasi-nemesi che propone la comunicazione qaidista: trasformare persone anonime, ai margini delle società, in terre povere e devastate da guerre e conflitti, «persone senza speranza» in eroi e martiri. In una forma «nuova» e più efficace di quella che avevamo conosciuto con l’intifada palestinese, in cui veniva offerta una «pensione» alla famiglia del kamikaze e manifesti «che avrebbero reso immortale l’eroe della jihad».

Si va ben oltre il mito delle vergini in paradiso. Quì la leva è il protagonismo, l’uscita dall’anonimato, la possibilità di diventare «leader e comandanti riconosciuti» di una guerra terrorista venduta mediaticamente come vendetta, come guerra di resistenza e liberazione.

Ne La Stanza Stupida – in un ragionamento circoscritto ai «gruppi social chiusi e ristretti» – scrivo: «Prendete dei giovani, studenti, ragazzi che stanno entrando nel mondo del lavoro. Metteteli in contatto tra loro, offrendo un mito, un esempio, un valore sociale alto cui ambire ed una comunita che intende «eroicamente» realizzarlo. Usate il web per cementare questo rapporto di relazione grazie al fatto che – in rete – i numeri possono raggiungere le migliaia (le interrelazioni restano al massimo di un paio di centinaia). Avrete un esercito pronto a combattere ogni vostra battaglia, a testa bassa, con coraggio e senza risparmio di tempo e di risorse. Perche avrete creato l’alchimia perfetta in cui rientra praticamente tutta la piramide di Maslow.» È solo partendo da questa considerazione sull’evoluzione della forma del messaggio e del cambiamento profondo dell’approccio mediatico che possiamo comprendere anche perchè sia così efficace la campagna di aggregazione, sostegno e arruolamento dell’ISIS.

Per la prima volta infatti – salvo sporadici episodi marginali – la jihad esce dai confini territoriali e culturali di specifiche aree geopolitiche, e fa  proseliti in occidente, presso ragazzi occidentali. Di più, prende a piene mani da quelle esperienze e competenze comunicative per implementare e sviluppare maggiormente l’efficacia della sua strategia comunicativa.

Secondo l’islamista Oliver Roy “All’inizio, il cosiddetto «Stato islamico» era un clone di Al-Qaida, ma se ne e allontanato a causa del fallimento dell’organizzazione di Bin Laden. Il suo genio era stata la creazione di una organizzazione non-localizzata, che era veramente globale nell’azione, nella comunicazione e nel reclutamento. Al-Qaida è stata quindi in grado di sopravvivere a tutte le campagne territoriali (Afghanistan, Iraq) lanciate dagli americani. Obama ha fatto qualche progresso ‘deterritorializzante’ la risposta americana, prima di tutto rendendosi conto di non dover cadere nella trappola di inviare truppe.

La formula di Al-Qaida si esaurisce perchè non è riuscita a rinnovarsi ed eseguire azioni capaci di «offuscare» l’undici settembre. È stato concluso che era necessario ‘ri-territorialize’ la lotta e allo stesso tempo mantenere la sua dimensione internazionale: creando il «Califfato islamico». Ciò permette di reclutare più volontari rispetto al sistema di Al-Qaeda.  Uno degli aspetti più interessanti dell’organizzazione e della strutturazione dei sistemi informatici dell’ISIS è che sono esattamente la dimostrazione di quanto i cyber-utipisti sbagliano, e di come le legislazioni occidentali che hanno tenuto conto dei think-tank che proponevano l’onnipotenza libertaria della rete si sono rivelate un boomerang.

L’idea per cui «internet è l’arma della libertà» che avrebbe abbattuto dittature e totalitarismi, già naufragata nelle primavere arabe, ma resistita nonostante tutto soprattutto grazie a una certa pubblicistica che non poteva ammettere di aver sbagliato, oggi mostra concretamente tutti i suoi limiti.

Del resto questa idea di onnipotenza, e di capacità «a senso unico» come arma di esportazione di libertà e democrazia, era utile alle potenti e ricche aziende della SiliconValley, che richiedevano «poche regole e molti fondi» per sviluppare i propri progetti. Nel suo «L’ingenuita della rete» Evgeny Morozov scriveva gia nel 2011: «Feticismo tecnologico e una richiesta continua di soluzioni digitali fanno inevitabilmente crescere la domanda di esperti di tecnologia. Questi ultimi, per quanto possano essere bravi nelle questioni riguardanti la tecnologia, raramente hanno familiarita con il complesso sociale e politico in cui le soluzioni che propongono sono da mettere in pratica. Ciò nonostante ogni qual volta i problemi non tecnologici vengono visti attraverso la lente della tecnologia, sono gli esperti di tecnologia ad avere l’ultima parola. …Molti visionari digitali vedono il web come un coltellino svizzero, buono per qualsiasi necessita. Raramente ci avvertono dei buchi neri informativi creati dalla rete. … Quasi tutti i guru della rete pongono domande scomode sugli effetti sociali e politici di internet. E perche mai dovrebbero porle se queste possono svelare che anch’essi hanno poca capacita di controllare la situazione? E per questo motivo che il tipo di futuro preannunciato da quei guru, che hanno bisogno di predirne uno plausibile per sostenere che la loro soluzione funzionerà davvero, raramente prende in considerazione il passato. I tecnologi, soprattutto i visionari tecnologi che invariabilmente saltano fuori a spiegare le tecnologie al grande pubblico, estrapolano ampiamente dal presente e dal futuro, ma mostrano un interesse dolorosamente limitato per il passato. […] E grazie a quegli annunci trionfali di una nuova rivoluzione digitale che cosi tanti guru di internet diventano consiglieri di quelli che hanno in mano il potere, compromettendo la loro stessa integrità intellettuale, e assicurando la presenza dell’internet-centrismo nella pianificazione politica per i decenni a venire.»

Mai nulla fu così profetico, se cominciamo a leggere il presente senza preconcetti. Lo psicologo tedesco Dietrich Doner nel suo «la logica del fallimento» (in cui descrive come i pregiudizi psicologici innati in coloro che prendono le decisioni politiche possono aggravare i problemi invece di risolverli) sostiene: «non è affatto chiaro quale fra «buone intenzioni più stupidita» o «pessime intenzioni più intelligenza» avrebbe causato maggior danno al mondo. … persone incompetenti armate di buone intenzioni raramente hanno i patemi d’animo che talvolta inibiscono le azioni di persone competenti con cattive intenzioni».

È straordinario constatare che ISIS si muove in rete esattamente come se seguisse alla lettera un teorico manuale del perfetto oppositore di un regime totalitario – in Cina quanto in Corea del Nord – scritto da un cyberutopista neo-con americano. Chat crittate, area download di risorse per la criptazione delle mail, usare torrent per la condivisione dei file, poggiare copie disponibili su «archivi cloud». Non possiamo cadere nell’errore delle «stanze stupide» dei consiglieri della Casa Bianca degli anni cinquanta, quelli che consideravano i vietnamiti o i coreani semplici contadinotti analfabeti che sarebbero stati schiacciati in pochi giorni e con facilità.

Non può essere la via della sottovalutazione del rischio quanto della reale forza (in questo caso mediatica) in campo un indice di distacco, censura, rifiuto. Noi abbiamo il dovere morale di comprendere innanzitutto che la globalizzazione della rete rende globali i messaggi: sia che parliamo di una nuova auto, di una nuova bevanda, di un abbigliamento, di una canzone o un film, sia che parliamo di comunicazione globale di un’idea: sia che ci piaccia sia che sia la nostra sia che non ci piaccia sia che ci faccia orrore.

Pensare ancora che il web sia l’arma della libertà contro le dittature significa non aver minimamente compreso che – invece – molto spesso i regimi totalitari «vogliono» i social network, che mentre sono luoghi di aggregazione di idee, rischiano di diventare anche l’agenda personale della polizia repressiva, che entrando in un gruppo su facebook in pochi minuti, oggi, riesce a mappare e schedare «tutti quelli che la pensano in un certo modo». Non contemplare questo effetto collaterale è non aver compreso quale sia il doppio taglio della rete globale.

Esattamente – elevato all’ennesima potenza – il rischio che tutti quegli strumenti che le aziende della new economy spacciano nel mondo come armi a disposizione degli oppositori dei regimi oppressivi, oggi diventano strumento di camuffamento, di offuscamento e irrintracciabilità di questo o quel gruppo jihadista.

Il rischio delle «stanze stupide» – in cui spesso guru dell’ultima ora si rinchiudono e chiudono i politici che devono decidere anche per noi – è di vedere solo «il web che vogliamo vedere», che ci piace e che ci fa comodo. E che forse genera introiti per qualcuno. Per poi scoprire twittando della coppa del mondo di calcio, che c’è qualcuno che gioca in strada usando come palla una testa mozzata. Per quanto possa apparire cruda questa idea, è ben lontana dalla durezza e dall’orrore che hanno provato, in diretta, milioni di persone che questa idea non l’hanno letta o immaginata, ma se la sono ritrovata su twitter, come foto o come video: adulti, adolescenti, bambini tifosi di calcio di tutte le culture del mondo.

La globalizzazione del terrore, che ieri si è esercitata con AlQaida e che oggi ha il logo e il marchio dell’ISIS, è solo un pezzo, quello forse primordiale, della nuova forma della comunicazione globale dell’estremismo, che recluta in tutto il mondo, in tutte le fasce d’età ed in ogni lingua, e che diffonde il suo messaggio senza alcun limite e confine territoriale, senza fasce protette, senza distinzioni di sesso, razza, religione, colore, situazione, contesto.

E come ogni prodotto virale, come nei passaggi dalla comunicazione qaidista a quella del califfato, l’unica regola è che «chi viene dopo» dovrà essere «più bravo, più virale, più strutturato» per emergere, ma anche più crudo, più violento, più sanguinario e con ancora meno limiti, per emergere come «soggetto nuovo» per evitare che «per il pubblico» sia qualcosa di «vecchio e già visto».

Nel lungo viaggio che ho compiuto per la mia ricerca all’interno della rete fondamentalista per raccogliere materiali e informazioni da cui e su cui scrivere, devo confessare che io per primo ho avuto una nausea ed una crisi di rigetto profonda. Che in maniera quasi salvifica in certi casi mi ha fatto quasi pensare «adesso mi arruolo anche io per combatterli questi». Ed anche se dall’altra parte, ed anche se io, con la mia cultura, le mie convinzioni, i miei principi ed i miei valori, non avrei mai fatto concretamente una scelta del genere, se questo pur momentaneo pensiero ha attraversato la mia mente, significa che la capacita di penetrazione del messaggio è davvero al di là ed al di sopra di quanto io stesso non sono certamente riuscito a comunicare in maniera efficace.

L’estremizzazione del messaggio fondamentalista e jihadista non è efficace solo se «tu scegli di combattere da quella parte», ma raggiunge un risultato anche se tu semplicemente scegli di combattere quella guerra, perchè in fin dei conti raggiunge l’obiettivo di farti schierare in prima persona sul campo, che significa legittimazione come avversario, unico e definitivo. Che poi è l’obiettivo politico globale dell’ISIS.

Guardando dall’esterno un giovane, un adolescente, che si imbatte in una qualsiasi delle nostre periferie occidentali in una rete jihadista, non si  immagina a quale bombardamento mediatico possa venire sottoposto.

I video diffusi dall’ISIS sono strutturati per trasformare i videogiochi 2D di una normale consolle in una possibile realtà «vera» 3D in cui essere player, protagonista, vincitore. A dispetto di quella realtà «fuori la porta di casa» in cui tutto è «normale» ed in cui ci si perde nell’anonimato delle periferie dell’opulenza. Il bombardamento mediatico di «essere parte» di un gruppo, di fare la storia, di essere il bene che piega il male, di essere «il nuovo», di essere Davide che sconfigge Golia, di poter essere eroe, di essere ricordato, diventare un martire di cui tutti parlano, essere «tu» il poster e per una volta smettere di essere l’adolescente che appende il poster di un eroe in camera. Essere tua la foto, la video intervista, il lungo articolo su un e-magazine, portato ad esempio «glorioso» di ragazzi come te in tutto il mondo. La chance di uscire dall’anonimato e da una vita segnata per diventare «un eroe», un mito, un martire di Allah, di cui tutti parlano e di cui parleranno sui giornali.

Comprendere e chiarire a quale forma di lavaggio del cervello si viene sottoposti non è giustificare o creare attenuanti a chi compie una scelta in tutto e per tutto folle, ma è dirsi con chiarezza a cosa porta quella che in fondo, nella sua struttura base, è l’estremizzazione elevata all’ennesima potenza del marketing partecipativo del televoto, del «gioca da casa», della brandizzazione commerciale come «status di appartenenza», per cui se non hai un certo vestito di una certa marca o un certo zainetto per la scuola o un certo trucco, non sei bello, non sei trendy, non appartieni a un gruppo.

Questo è il nuovo «marketing partecipativo del terrore» che ti invita a essere parte di un gruppo che fa la storia, che ti fa sentire parte di un progetto, che ti rende eroe e infondo la guerra è come un videogame 3D e i campi di addestramento sono un grande campo estivo per ragazzi di tutto il mondo. Le comunità qaidiste e jihadiste sono come un gruppo di amici, con cui fai squadra, in cui ti senti in famiglia, accettato, e cui puoi contribuire con un tweet, una foto, un messaggio, una risposta, un account fake, qualche dollaro via paypal…

Il messaggio di «noi adulti consapevoli», che questo è un messaggio ed una comunità assassina e di morte, non viene percepito, non è visibile… perchè la morte, in questo eccesso continuo e costante e sovrabbondante, alla fine, è come se non esistesse, come se finisse con il non essere reale, come tutti quei nemici uccisi nel videogame o in un film hollywoodiano.

Elham Manea, una delle voci piu coraggiose e brillanti dell’islam contemporaneo, ha scritto: ≪La verità che non possiamo negare è che l’Isis ha studiato nelle nostre scuole, ha pregato nelle nostre moschee, ha ascoltato i nostri mezzi di comunicazione … e i pulpiti dei nostri religiosi, ha letto i nostri libri e le nostre fonti, e ha seguito le fatwe che abbiamo prodotto. Sarebbe facile continuare a insistere che l’Isis non rappresenta i corretti precetti dell’islam. Sarebbe molto facile. Ebbene si, sono convinta che l’islam sia quel che noi, esseri umani, ne facciamo. Ogni religione puo essere un messaggio di amore oppure una spada per l’odio nelle mani del popolo che vi crede≫.

 

Michele di Salvo es CEO de Crossmedia Ltd. Especializado en relaciones públicas y comunicación. Escribe en micheledisalvo.com, colabora con numerosos medios de comunicación y es especialista en estrategia de campañas. (@micheledisalvo)

Publicado en Beerderberg

Descargar el PDF

Ver el resto de artículos del número 10